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CLAUDIO CISCO “presentazione ed immagini personali d’autore”

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CLAUDIO CISCO nasce a Messina safe_imageil 18-10-1964. Scrittore inquieto dall’animo agitato e tormentato amante della solitudine esordisce nel 2004 col suo primo libro COME SONO DENTRO, dove la sua natura romantica e dolce si fonde meravigliosamente con la sua indole malinconica e funerea facendo germogliare liriche di ineguagliabile purezza. Ma la sua ispirazione sempre fervida non ha limiti né confini. Decide così di ampliare il suo percorso letterario spaziando nel campo della narrativa. Nasce l’anno dopo il libro COLEI CHE BREVEMENTE FU E CHE MAI IN VITA CONOBBI, nel quale il senso del mistero e la paura della morte si innalzano a vita sospinte dalla forza del sogno e dall’incanto dell’immaginazione attraverso pagine delicatissime e di commovente bellezza nelle quali impeto del racconto e capacità fabulosa si armonizzano con arte. Nello stesso anno sente l’esigenza di fare presa sui lettori e rischia coraggiosamente dando alle stampe il libro IL VECCHIO E LA RAGAZZA, un libro-scandalo che si schiera contro tutte le convenzioni sociali e ogni forma di moralità a difesa d’una libertà d’espressione illimitata e senza freni. Il libro fa molto parlare di sè ma incuriosisce. E’ il grande e meritato successo. Nel 2006 torna al suo vecchio amore: la poesia, e crea il libro  LA MIA ANIMA E’ NUDA, dimostrando ancora una volta  la sua impossibilità di essere e di realizzarsi in un mondo che nega tanto più crudelmente la felicità, quanto maggiore è la nostra virtù.

 


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Cerco in tutto l’universo un’amica sincera che come me sia sensibilissima, con l’animo d’artista e che si senta sola. Se esisti davvero ti prego di contattarmi

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Claudio Cisco

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IMMAGINI PERSONALI D’AUTORE DI CLAUDIO CISCO

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“COLEI CHE BREVEMENTE FU E CHE MAI IN VITA CONOBBI” (Claudio Cisco)

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Claudio Cisco
 
Colei che brevemente fu e che mai Conobbi in vita.

MARIETTA

safe_image Messina 2005

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

copyright © 2005 by Claudio Cisco

 

INTRODUZIONE

 

 

Vi giuro che non so neanch’io il perché abbia scritto questa storia inverosimile, chissà perché l’ho fatto! chissà chi mi ha ispirato! certo non io stesso, di questo almeno ne sono sicuro. Quando si è troppo soli o ci si sente del tutto incompresi, si può arrivare a inventare un’amica immaginaria alla quale poter confidare i propri sogni, le proprie emozioni, le paure e le speranze di chi sa di poter dare molto agli altri ma di non essere messo in condizione di poterlo fare. È un po’ come quando uno parla da solo, e magari arriva al punto perfino di confondersi, oppure si guarda allo specchio invecchiato di fuori e, riflesso, si vede bambino di dentro, come se il tempo della giovinezza non fosse mai trascorso e restasse eterno in sintonia e simbiosi con la propria anima. Alla cosiddetta “maturità” d’un uomo che è già vecchio senza rendersene conto, che nel suo cuore ha già sostituito il mondo delle favole con quello dei soldi e della posizione sociale, io oppongo la meraviglia e lo stupore dei miei occhi rimasti ancora di bambino, capaci di vedere il mondo come un nuovo gioco, un magico Natale pieno di luci e palline colorate, di ricreare con la fantasia l’innocenza e la tenerezza di chi bacia per la prima volta. Se solo potessi, attraverso le mie poesie o i miei libri, far capire a tutti che è nella semplicità, nella purezza incontaminata dei sogni, nel far rivivere il bambino presente in ognuno di noi, che si può trovare la vera felicità, la serenità, quella luce che ci fa sentire più vicino a Dio in una vita piena di significato e d’amore. Se solo riuscissi a farmi ascoltare tramite questo libro arrivando dritto al cuore del lettore, prestandogli i miei occhi, gli farei ammirare quanta poesia vi è in un fiore che sboccia, in un bimbo che ride, in un raggio di sole, nel volo di un airone e in mille e mille altre piccole cose quotidiane della vita che sono state create per noi, affinché ogni uomo possa rinascere ogni volta, sentendosi in armonia con l’universo, parte di esso, ritrovando la propria dimensione. Se solo l’uomo riuscisse a guardarsi dentro e ad aprirsi all’infinito che lo circonda, scoprirebbe quanto sia bello il mondo, quanto sia favolosa la natura.

La bellezza, la felicità è tutta intorno a noi, nei nostri sensi, nell’aria che respiriamo, in ogni minuscola particella vivente che pullula di vita e d’amore. Ogni essere umano, anche il più povero che possa esistere sulla faccia della terra, è ricco e non sa di esserlo.

Per tutto questo, ho deciso di scrivere questo libro. Nella figura di una creatura immaginaria, io proietto tutto me stesso, i miei sogni e le mie speranze, vedo riflesso Dio, l’azzurro del cielo, il bacio della ragazza che amo, un bambino che non è mai cresciuto. Questo racconto è per tutti voi che credete ancora alla magia dei sogni ma soprattutto per chi non crede affinché possa provare a farlo. È anche per tutti coloro che amano quella meravigliosa e fiabesca avventura che è la vita che, anche se apparentemente può sembrare triste e difficile, in realtà è splendida e degna di essere vissuta sempre e in ogni caso.

In Marietta, la protagonista del mio romanzo, io proietto ancora tutto il mio sincero amore verso una vita traboccante di emozioni e di speranze.

Forse è solo un sogno, lo so, ma non posseggo null’altro, è tutto quello che ho.

Il romanzo è narrato quasi per intero in prima persona e mi vede protagonista.

Tuttavia ho preferito usare lo pseudonimo di Manuel. Tutti i nomi e i fatti citati nel racconto corrispondono a persone realmente vissute e a fatti realmente accaduti.

L’Autore


COM’ERO. IL MIO STATO D’ANIMOggtt

 

Avevo 19 anni, sì, solo 19 anni, l’età più bella, sentivo dire dagli altri; l’età che tutti desidererebbero avere e magari mantenerla per sempre, a dispetto del tempo. Ma io, io non ero felice. Era come se quella bellissima età non mi appartenesse, o meglio non fosse stata mai mia. Se dovessi giudicarmi per com’ero allora, con gli occhi obiettivi e più maturi di adesso, probabilmente mi verrebbe facile dedurre che ero completamente immaturo, vittimista, strano e aggiungerei anche un po’ folle, anzi del tutto folle, ma d’una follia che rasenta la creatività, una follia sinonimo di stranezza, tipica di quelle anime elette, fragili, eternamente insoddisfatte che identificano nei sogni la loro voglia d’evasione, il desiderio, anzi il bisogno, di protendersi verso l’agognata libertà assoluta, unica ancora di salvezza contro gli abissi del dolore. Continuando a guardarmi con gli occhi di adesso, devo ammettere che oltre ad essere o voler sembrare folle, avevo radicata in me sin dalla nascita, una sorta di tristezza senza guarigione, desolata e abbandonata, senza una motivazione plausibile che la giustificasse. Una strana tristezza che io, un po’ ingenuamente, ritenevo potesse essere prerogativa dei geni incompresi e che contribuiva negativamente a farmi isolare sempre più dai miei coetanei, dai miei genitori, dal mondo che mi circondava e che appariva ai miei occhi tutto sbagliato. Era una tristezza che non trovava assolutamente sbocchi perché alimentata sempre e solo dal mio io, chiusa in un lacerante e ingiusticato pessimismo. Già, devo chiamarlo proprio così “ingiustificato pessimismo” perché in verità non vi era stato proprio nulla di così rilevante da poter giustificare un simile stato d’animo. Nulla la vita mi aveva riservato di così triste e crudele, ad altri, sicuramente, molto di più. Penso, ad esempio, agli handicappati, ai tanti malati che scoprono il dolore giorno dopo giorno nelle corsie degli ospedali, agli emarginati di ogni genere, agli orfani, ai poveri, ai vecchi soli al mondo abbandonati al loro destino, a chiunque insomma possa aver sperimentato realmente tutto il male che io pensavo fosse destinato solo a me e a nessun altro. La cosa che oggi mi sembra più assurda, consisteva nel fatto che io mi ero proprio crogiolato nella mia stessa tristezza, mi ero quasi chiuso in una specie di urna di cristallo dove proteggermi dalle insidie del mondo e da tutto ciò che rappresentava la vita all’esterno e che mi ruotava intorno. Fuggivo dal mondo e, quel che era peggio, da me stesso. La tristezza era per me diventata quasi un alibi, un approdo sicuro, un modo di essere nel quale trovare la mia dimensione più congeniale. Tristezza uguale incomprensione degli altri verso di me, questo era il mio assurdo binomio che serviva solo per alimentare maggiormente la mia solitudine. A dire il vero, ho sempre cercato in quel periodo e in special modo adesso che ho una capacità di analisi migliore, di scavare nella mia infanzia con la speranza di trovare una risposta a quel mio inusuale modo di essere e di rapportarmi agli altri, modo che, sia pure in minuscola parte, mi porto ancora adesso, nonostante i miei 40 anni superati. Ma, nonostante mi sforzi minuziosamente a trovare qualche indizio utile alla causa, qualunque giusta e valida prova, non riesco a riscontrare nulla di realmente importante. Sento dire che ogni essere umano sia il prodotto di un insieme di fattori ereditari che s’intersecano tra loro, di una infinità di condizionamenti ambientali, probabilmente questo è anche vero, ma io non riesco a scorgere proprio nessuno dal quale possa aver ereditato un carattere così particolare. Forse l’esser venuto al mondo dopo ben 16 anni dalla nascita di mia sorella e da una madre non più giovanissima particolarmente attaccata a me e troppo apprensiva nei miei confronti, può forse aver generato nella mia psiche, una certa insicurezza scaturita proprio dal troppo affetto materno. Una iperprotettività che mi ha impedito di crescere, di spiccare il volo verso nuovi orizzonti che apparivano ai miei occhi, sconosciuti e temuti.

Siamo sempre però nel campo delle ipotesi perché io, in realtà, testardo e un po’ narcisista oltre che esibizionista, facevo sempre di testa mia, non prendendo troppo in considerazione i consigli e gli insegnamenti di mia madre, come quelli, del resto, di chiunque altro. Tutto questo però non lo facevo per ribellione o per il semplice e banale gusto di trasgredire, ma perché ritenevo, e ne sono convinto anche adesso, che sia giusto fare ognuno le proprie esperienze, magari sbagliando per poi correggersi da soli senza commettere mai più, possibilmente, gli stessi errori. Solo così si può crescere e maturare, imparando sulla propria pelle, a proprie spese. Ho sempre pensato che nella vita bisogna appoggiarsi soprattutto a se stessi e alle proprie forze perché non esiste nessuno al mondo all’infuori di noi stessi, capace di capirci e volerci bene più di quanto possiamo volercene noi. Non bisogna ovviamente cadere nell’eccesso, ossia cedere all’egoismo, ma dosare il tutto con intelligenza ed equilibrio. Solo chi ama veramente se stesso, può poi trasferire parte di questo amore al prossimo. Questa è un po’ una mia legge, un mio modo di pensare che non pretende assolutamente di essere condiviso o di valere per tutti.

Anche il mio rapporto con la religione e con la fede, era un po’ vacillante in quel periodo, non solido come avrebbe dovuto essere. Sì, credevo in linea teorica all’esistenza di un Dio, anche perché cresciuto in una famiglia di forte ispirazione cattolica.

Conoscevo per averli sentiti nell’aria, anche inconsapevolmente, gli insegnamenti del Vangelo, i dogmi ai quali prestare solenne fedeltà. Ma, al momento estremo del bisogno, più che alla provvidenza divina, mi rivolgevo alle mie stesse forze, alla mia volontà, alla voglia di reagire, di non lasciarmi andare. Tuttavia possedevo dentro, una innata bontà che mi impediva persino di uccidere uno scarafaggio, per non provare poi il rimorso di aver distrutto una vita che, anche se apparentemente insignificante, rappresentava lo stesso una vita e come tale esigeva il massimo rispetto. Incapace di fare del male a chiunque anche verso chi ne faceva a me, non porgevo l’altra guancia, ma non reagivo, allontanandomi da lui senza meditare vendette o provare rancore di nessun tipo. Avevo pochi amici a causa del mio carattere schivo e solitario ma non ho mai avuto nemici. Mi facevo voler bene ed ero sempre pronto ad ascoltare chiunque senza pregiudizi di nessun tipo. Non riuscivo proprio a dar dispiaceri a nessuno se non a me stesso. Non trovavo giusto fare agli altri quello che non avrei voluto fosse fatto a me. Il mio era un ragionamento logico, elementare, non scaturito o influenzato dall’insegnamento cristiano, anche se poi, in pratica, coincideva perfettamente. La cosa più curiosa di allora, consisteva nel fatto di essere arrivato addirittura a mitizzare la sofferenza e, di conseguenza, anche la mia tristezza.

Pensavo fosse quasi un dono divino che sarebbe servito all’uomo, ma non per redimerlo scontando i peccati terreni in prospettiva d’una redenzione futura, ma bensì per esternare la propria sensibilità artistica. Già, avevo creato un altro assurdo binomio che consideravo allora inscindibile e che tuttora sono convinto che possa esistere, sofferenza uguale arte. Soltanto soffrendo, pensavo, è possibile diventare sensibili e di conseguenza artisti. Più si soffre e maggiormente si matura, si alimenta l’ispirazione artistica.

Non è un caso che le mie poesie più belle, o almeno quelle alle quali sono più legato, le più vere, le più sincere siano nate da una sorgente che esprimeva la tristezza d’un momento. Non so perché, ma ancor oggi, non riesco a scrivere nulla nell’istante in cui sento di essere felice o sereno per meglio dire, perché “felicità” è una parola troppo grande. Un artista, in genere, compone quando sente dentro il bisogno di comunicare qualcosa agli altri, una propria intima emozione, che è tanto più forte ed intensa, quanto più ombra ha nel cuore. Un uomo cerca l’acqua solo quando ha tanta sete. Non so perché ma è così.

Confesso però che mi sarebbe piaciuto e che mi piacerebbe ancora, poter scrivere in un momento di gioia, proprio per sentirmi altruista e aiutare così il mio prossimo, trasferendogli tramite l’arte, un po’ della mia letizia. Purché lo voglia chiunque, non solo artista, nella vita di tutti i giorni, può regalare un sorriso a chi ne ha veramente bisogno che, per quanto piccolo possa sembrare agli occhi di chi lo offre, è sempre meravigliosamente grande e importante per chi lo riceve.

Ritornando a guardarmi all’età di 19 anni, continuo a non capire ancora il motivo per il quale preferissi la solitudine dei cimiteri, alle compagnie e ai divertimenti giovani.

Non mi rendo conto del perché di tutte le fobie d’allora, delle mie ansie implacabili, delle mie paure ossessive, della mia in un certo senso depressione, tutti problemi che, fortunatamente, ho risolto in età adulta tranne qualche minuscolo residuo facilmente domabile, ma che allora, sembravano per me inguaribili, autentici drammi. È strano però il fatto che io, cantore follemente innamorato della bellezza dell’adolescenza e più in generale della giovinezza, debba trovare un po’ di equilibrio e di serenità, soltanto oggi che ho 40 anni, trovo tutto questo così paradossale e non mi oriento più. Se solo avessi avuto, in quel periodo, lo stesso coraggio che ho adesso di prendere di petto tutti i miei problemi, di affrontarli con coraggio, faccia a faccia, senza partire battuto ma con la consapevolezza di poterli vincere, di poter dire loro: “Non mi fate più paura, io sono più forte di voi!”

Se solo avessi avuto allora l’intelligenza, la maturità, la saggezza che mi ritrovo oggi e soprattutto la forza di credere nella mia volontà, tutto sarebbe stato diverso e forse non avrei avuto nemmeno l’ispirazione per scrivere la storia che sto per raccontarvi. Ma, nella vita, nulla accade per caso, anche se in apparenza può sembrare senza spiegazione. Sarei stato un ragazzo praticamente normale come tanti altri, anche se, in ogni caso, la normalità è sempre relativa e riduttiva se per normalità si vuole intendere massificazione, fare cioè quello che tutti fanno, che gli altri vorrebbero che tu facessi. Bisognerebbe sempre, in tutti i modi possibili, battersi per difendere il proprio modo di esprimersi e di essere, senza assurde e incomprensibili maschere imposte da una società troppo  spesso stereotipata e insensibile alle esigenze del singolo. E pensare che ogni essere umano è un esperimento di vita, unico e irripetibile e che ha quindi tutto il diritto di essere uno spirito libero, al di fuori di schemi preconfezionati, tradizioni o condizionamenti di nessun tipo, felice di manifestare la propria identità che si diversifica da quella degli altri ma, allo stesso tempo, si integra con l’altrui libertà, rendendo la vita ancora più bella perché varia, tollerante, colorata. Uno strano ragazzo, sicuramente, molto particolare, fuori dal comune, ero io. Magro, con i capelli lunghi, vestito in maniera trasandata, senza seguire nessuna moda in voga in quel periodo. Un look schizofrenico, nel senso di liberissimo, contraddittorio, fuori da ogni regola o criterio di abbigliamento, senza il minimo abbinamento di colori che potesse dare un certo gusto estetico all’occhio. Alternavo assurdi pantaloni a quadretti tipici da clown, a strane e lunghe giacche rosa. A volte vestivo completamente di nero con dei spettrali occhiali scuri, accentuando così la mia magrezza che era per me una specie di complesso, a tal punto da impedirmi di mettermi in costume da bagno pur adorando il mare. Portavo sempre dei fazzoletti intorno al collo, di vario colore che mi procuravano, e ne ero molto orgoglioso, un’aria misteriosa e un po’ tenebrosa ma, al tempo stesso, potevo dare l’impressione di un bambino diventato adolescente troppo in fretta che suscitava immediata tenerezza e un istinto quasi materno di protezione. Non ero certamente brutto, anzi tutt’altro. Ero forse simpatico e persino carino ma non facevo nulla per evidenziare queste mie qualità, anzi, facevo del tutto per tenerle nascoste. Il colore chiaro dei miei occhi, ad esempio, che spiccava con la mia carnagione abbronzata e col castano dei miei capelli, veniva quasi sempre nascosto da occhiali scuri, come già detto, e il vestiario poteva sembrare più da zingaro anziché quello di un ragazzo che vuol farsi ammirare in armonia con la propria giovane età. Facevo insomma, forse in parte anche involontariamente, di tutto per sembrare più inguardabile di quanto in realtà non lo fossi, presentandomi agli altri come mai e poi mai avrei dovuto apparire. La dolcezza quasi infantile del mio viso, i miei lineamenti oserei dire quasi efebici, erano continuamente mortificati e messi in discussione da un’espressione che io, ad arte, facevo diventare da duro oppure di chi sembrava perso nel vuoto che contrastava nettamente con la mia disarmante sensibilità e soprattutto con l’età che dimostravo. Avevo infatti la grande fortuna che ho anche adesso, di sembrare un paio d’anni più piccolo rispetto alla mia vera età. Potevo dimostrare sì e no 14 o al massimo 15 anni. Guardandomi per ore allo specchio, a volte mi piacevo, altre invece mi detestavo trovandomi tutti i difetti possibili, fino al punto di rompere gli specchi. Era innata in me una certa timidezza che ancora un po’ conservo e che si manifestava nella mia quasi impossibilità di fissare a lungo negli occhi qualunque interlocutore, specie se si trattasse di una ragazza. I miei occhi un po’ impauriti, spesso si abbassavano di colpo, come per cercare un nascondiglio nel quale potersi rifugiare. Già, le ragazze. Con loro il mio è stato sempre un rapporto particolare. Anche in questo campo, il mio grande amore per il sogno veniva a galla. trasformando la realtà in immaginazione. Vivevo infatti amori immaginari e platonici. Le ragazze che solo io sapevo di amare, esistevano davvero, se non altro, e non come la protagonista defunta di questo libro, ma non sapevano mai nulla del mio segreto amore nei loro confronti. Io, fra l’altro, sia per timidezza, sia per la paura di guastare il sogno, non avrei mai avuto il coraggio di confessarlo. Questo mio infantile e patologico modo di concepire l’amore, in piccola parte mi è rimasto ancora oggi nella mia personalità di adulto. Infatti forse ora non cerco una ragazza o una donna specifica in quanto tale, ma amo l’idea dell’amore, della compagna che non si trova, che non esiste, quasi sublimata in angelo, segno d’una chiara mancanza di predisposizione e di adattamento alla vita reale. Sensibilissimo com’ero, lo sono ancora adesso, consapevole di essere diverso dai miei coetanei ma mai reputandomi superiore a loro, cercavo di attirare la mia attenzione presso le ragazze, adottando un comportamento inusuale, a dir poco strano se non folle, ma ottenevo sempre inevitabilmente l’effetto contrario e diventavo ridicolo ai loro occhi. Non avevo la maturità e la furbizia necessarie per capire che, per avere successo con l’altro sesso, per essere apprezzati, bisogna semplicemente essere se stessi. Andava a finire così che mi sentissi sempre più solo, giudicando tutte le ragazze, nessuna esclusa, vuote, superficiali e materialiste, prede di facili ideologie alla moda e incapaci di comprendere la mia interiorità. Non capivo che l’unico che non funzionava in quel contesto, ero proprio io, io e soltanto io. Ricordo che spesso dedicavo loro poesie, già le poesie. La mia passione per lo scrivere  ha radici lontanissime nel tempo, risale agli albori della mia vita, fa parte di me. A volte mi viene il dubbio che scrivessi già dalla pancia di mia madre. Ero e sono comunque veramente contento di questa mia inclinazione, guai se non ci fosse. Mi ha aiutato moltissimo in quel periodo e mi è molto utile anche adesso. È l’unica cosa che so fare, una valvola di sfogo, un modo per canalizzare le mie energie, quasi una confessione, un aprirmi con me stesso e verso gli altri. È un bene quando le mie frustrazioni, le mie nevrosi, anziché uscire sotto forma di malattie, vengon fuori tradotte in espressioni artistiche. Guai se non scrivessi più, sarebbe come ammettere di essere morto. Credo di avere delle qualità, del talento. È un vero peccato che non se ne sia accorto proprio nessuno, che non mi abbiano mai dato fiducia credendo in me. Continuando a viaggiare sulla mia ipotetica macchina del tempo e tornando a ritroso con la memoria, mi vedo davvero stupido all’età di 19 anni, troppo immaturo e troppo bambino. 19 anni che potevano benissimo essere 30, 40, 50, 80 in base alla mia sensibilità artistica ma che, allo stesso tempo, potevano sembrare 12, 10, 8 per il mio modo di porgermi verso me stesso e verso gli altri. Non capivo la cosa più importante ed elementare di tutte le conoscenze in genere e cioè che la vera felicità, la si può trovare nelle piccole cose quotidiane della vita e che sgorga spontanea dentro di noi. Ma non ero l’unico a non aver capito questa semplice verità. Quanta gente importante nel corso della storia non l’ha compresa! Dottori, scienziati, filosofi, poeti, insegnanti sono magari in grado di recitare la Divina Commedia a memoria o tutti i classici della letteratura, ma poi non sono capaci di distinguere il ramo da una foglia. Quando si è troppo impegnati a pensare in grande, ci si dimentica completamente delle piccole cose della vita che sono le più importanti, le più vere, che fanno parte di noi, che vivono con noi e intorno a noi come piccole sorelle non viste dalla nostra cecità assoluta, non percepite dalla nostra attenzione e dal nostro cuore tutto assorbito dal marasma d’una vita materiale. A volte, confesso che vorrei che ogni uomo facesse un piccolo salto nell’aldilà per scoprire la bellezza della propria spiritualità, per poi ridiscendere in carne e ossa su questa terra. Solo allora si renderebbe conto di aver vissuto male, anteponendo la legge della materia a quella dell’anima, smarrendo del tutto la propria identità, la vera essenza della vita. Ho ritenuto giusto, cari lettori, fare questa abbondante premessa su com’ero all’età di 19 anni, non con l’intenzione di annoiarvi anzi qualora questo fosse avvenuto me ne scuso sentitamente, ma poiché credo sia necessaria per inquadrare meglio la mia personalità al tempo in cui si svolsero i fatti che sto per narrarvi, proprio in virtù dell’originalità e della stranezza di tali fatti.

La verità sta proprio nella considerazione che solo uno strano ragazzo quale io ero all’età di 19 anni, poteva trovare l’ispirazione per scrivere una storia così assurda ma anche così coinvolgente.
safe_imageMESSINA, INVERNO 1984

 

 

Non ricordo con esattezza il giorno preciso del mese in cui cominciò questa strana storia.

So che tutto ebbe inizio così, semplicemente, come quelle storie che nascono senza un perché, con quel famoso detto “C’era una volta” così caro a bambini che lo ascoltavano in dormiveglia, dalle care voci delle nonne o delle mamme, all’inizio di qualsiasi fiaba. Com’è lontano quel magico tempo! Le fate sono diventate giochi elettronici. Oggi tutto è maledettamente cambiato e appare glaciale, freddamente scontato, terribilmente calcolato. Siamo entrati in un tunnel senza uscita e senza ritorno, proiettati dal falso progresso verso un mondo futurista, dove persino il nostro destino risulta scritto in fondo alla memoria d’un computer.

Mass media che dilatano e condizionano le nostre coscienze, satelliti artificiali sulle nostre teste che ci spiano minacciando la nostra privacy e ancora pubblicità senza fine che ci rende tutti visionari martellando il nostro cervello. Nonostante tutto questo, io sono ancora qui a scrivere seguendo con costanza e coerenza le mie idee di sempre, annullando, fin quando mi sarà possibile e ne avrò la forza, il nulla che mi circonda con la forza della mia fantasia, con la bellezza della mia immaginazione, con la gioia di vedere i miei sogni realizzarsi spontaneamente, come una magia, senza falsità ed inganni.

Dicevo, quindi, di non ricordare il giorno esatto, ma posso dirvi con assoluta certezza, che da pochi giorni era entrato l’anno 1984 e ci trovavamo ovviamente nel mese di gennaio. Ricordo anche che era una fredda e malinconica mattinata autunnale. E tornando a guidare la famosa e già citata macchina del tempo, posso ancora vedermi così com’ero realmente, mentre camminavo per strada per recarmi, come tutte le mattine, a scuola.

Potevano essere circa le 8, considerando che alle 8,30 sarebbe suonata la campanella per entrare in classe. Non ero vestito troppo male vista la maniera con la quale uscivo in quel periodo, anche perché, a scuola, dovevo necessariamente presentarmi con un look adeguato, forse troppo, tale da creare così l’eccesso contrario, cioè quello di essere perfettamente intonati col vestiario, al luogo nel quale si opera. Nonostante ciò, avevo sempre nel mio sguardo, quel solito alone di mistero, quel non so che di velata ed indefinibile malinconia. Avevo piuttosto da portare, oltre al mio sempre presente fardello di tristezza, un peso materiale altrettanto consistente, quello dei miei libri che dovevo necessariamente caricarmi sulle spalle e che servivano più a farmi diventare curvo (alla Leopardi per intenderci) che per impartirmi una sottocultura nozionistica. Ho sempre pensato che la vera scuola, te la dà la vita, la strada dove le cose, giorno per giorno, ti insegnano da sole il loro nome.

Si usava nella mia classe ma penso anche in molte altre, per ragioni di convenienza tra compagni di banco, dividere il numero dei libri esattamente a metà per distribuire in parti uguali gli immani sforzi. Il mio compagno di banco, Piero, veniva però da un piccolo paese del messinese, a metà tra la collina e la montagna, Massa San Giorgio, e quindi, per un atto di dovuta cortesia nei suoi riguardi, è andata a finire che i libri praticamente li portavo quasi tutti io, abitando peraltro in centro, non molto lontano dalla scuola. Già, la scuola. Una scuola per ragionieri, l’Istituto Tecnico Commerciale “Antonio Maria Jaci”. Mi trovavo ormai a frequentare l’ultimo anno ma mi chiedevo ancora cosa ci facessi io, quasi un genio dell’italiano, fortemente appassionato alla letteratura e alla filosofia che sognava ancora ad occhi aperti di diventare professore di Lettere, in una scuola di ragionieri. Uno dei miei tanti errori nella vita. Mai, mai una volta in tempo ci si accorge di aver sbagliato, sempre  troppo tardi. E così, alternando voti altissimi nelle materie letterarie, a quelli altrettanto bassi nelle materie tecniche, senza essere mai stato rimandato o peggio ancora bocciato, continuavo ad andare avanti lo stesso, tanto ormai si trattava soltanto dell’ultimo anno, dell’ultimo sacrificio.

In fondo a me piaceva studiare ma solo quelle materie che più mi prendevano e affascinavano e non certamente quelle di tecnica o di ragioneria. Del resto, se ognuno sceglie liberamente nello studio di seguire la strada per la quale si sente più portato, ci sarà sicuramente un motivo. Io non ho avuto fortuna neanche in questo, o forse non sono stato abbastanza lungimirante, non ho saputo scegliere. Tutto si svolgeva a Messina, la mia cara città, una città alla quale ho sempre voluto bene, non perché mi abbia dato qualcosa di particolare ma perché vi ero nato, era un po’ come se fosse casa mia, se rappresentasse la mia infanzia, alla quale ciascuno di noi resta sempre, nel corso della vita, particolarmente legato. Forse sentivo di volerla bene, anche perché, paranoicamente, in solitudine, la percorrevo sempre in lungo e largo, camminando senza meta, solo con i miei pensieri e di conseguenza scattava verso di essa, quasi un affetto particolare che definirei, in un certo senso, familiare, quasi come se stessi girando o parlando da solo nella mia stanzetta. La sentivo, insomma, appartenermi, essere mia, trovare posto tra le mie cose più care e intime del cuore, come quei ricordi più belli a cui si è particolarmente legati e che si custodiscono gelosamente. Eppure quel giorno Messina, la mia Messina, aveva un aspetto spettrale, malinconico, quasi come un inspiegabile presagio di quanto sarebbe poi accaduto. Un’atmosfera che si conciliava perfettamente col mese invernale di gennaio ma non certamente con la solarità della città che, il più delle volte, splendeva al sole. Non so dire con esattezza cosa sia accaduto in me quella mattina, anche perché mai prima d’allora mi era balenata in mente l’idea di marinare la scuola, per non avere poi rimorsi nei confronti dei miei genitori e soprattutto di me stesso. Ma quella mattina tutto sembrava diverso, strano, insolito, incredibilmente nuovo. Dentro di me, qualcosa o qualcuno che non sapevo chi o cosa fosse, mi stava incitando, fino a proibirmelo categoricamente, di non recarmi a scuola. Era come se avessi un appuntamento sconosciuto ma importante, al quale non potevo assolutamente mancare o rinunciare.

Non avevo più nessun tipo di rimorso, dubbio o ripensamento nel prendere quella decisione, dovevo non entrare e basta. Così, cambiai subito direzione e anziché andare verso la scuola, mi indirizzai alla zona opposta, verso sud. Era come se fossi guidato a distanza da un comando che non potevo vedere ma che sentivo mi stesse catturando, muovendo i pulsanti, orientandomi verso di esso. Ero praticamente un automa che camminava spinto da una forza misteriosa e invisibile, come si trattasse di una calamita. Persino i miei libri non mi pesavano, erano diventati, di colpo, leggeri, sembrava non ci fossero più. Camminai così, come un’ombra senza identità, per circa mezz’ora, con un passo svelto ma che nulla aveva a che fare con la corsa. Quel mio strano camminare, s’interruppe esattamente davanti alla porta centrale del Gran Camposanto della mia città. Proprio lì, una voce intima che neanch’io riuscivo a decifrare e a capire da dove provenisse e cosa volesse da me, mi obbligò a fermarmi di colpo e, introducendosi nei labirinti della mia mente, prendendo il totale controllo sulla mia volontà, mi fece varcare la soglia, spingendomi ad entrarvi dentro.

DENTRO IL GRAN CAMPOSANTO

 

 

Mai prima d’allora avevo avvertito il bisogno di esplorare la bellezza, se di bellezza si può parlare trattandosi di un luogo di preghiera che richiama pur sempre alla morte, di un cimitero che risulta essere il secondo d’Italia come grandezza, e classificabile tra i più belli in assoluto per la ricchezza di statue, monumenti, sculture e opere d’arte funeraria che contiene, alcune delle quali antichissime. Soltanto il giorno dell’anniversario della commemorazione dei defunti, avevo l’abitudine di visitarlo, come tutti del resto.

Pur essendo, per natura, fortemente attratto da tutto ciò che è sepolcrale, sempre catturato dalle epigrafi e dalle foto dei defunti, non avevo mai sentito il bisogno o la necessità di andarci in altre occasioni. Ma quella mattina, tutto cambiava, ciò che mai sarebbe potuto succedere, ora accadeva con naturalezza come fosse già scritto, stabilito. Ciò che prima d’allora poteva considerarsi impossibile, diventava assolutamente lecito, tangibile.

Fortunatamente non v’era nessun accompagnamento funebre all’entrata, ma solo una carrozza con un cavallo e un ragazzo handicappato di circa 30 anni che si divertiva a prendere le ghirlande dalla stanza dove vigilava il custode del cimitero e a portarle su quel carro. Poi le riprendeva dal carro e le riportava nuovamente nella stanza del custode, con un ritmo ripetitivo e monotono, minimale, come un uomo disperatamente solo che, vittima delle proprie paranoie, non riesce a liberarsene mai, neppure quando dorme la notte. Il viso dell’handicappato era allegro, spensierato, assolutamente privo di ogni espressione logica. Eppure io, in quel momento, ero arrivato al punto di invidiarlo per quella sua strana e inconsapevole contentezza che aveva dipinta sul viso, completamente all’opposto del mio che non rideva quasi mai. Mi sembrava quasi un bambino, inconsapevole dei pericoli della vita, ignaro di cosa lo attende.

Alla guida del carro, vi era un uomo sulla cinquantina d’anni. Aveva un paio di baffi folti e pittoreschi che si notavano immediatamente, tipici di certi personaggi siciliani adatti ad essere ritratti in quei quadretti venduti ai turisti come ricordo. I baffi erano bianchi, lo stesso colore argento dei capelli, in realtà pochissimi, vi traspariva infatti un capo quasi calvo. Era intento a fumare una sigaretta più per noia che per piacere. Di tanto in tanto, con ritmi monotoni e lenti, alzava la bocca verso il cielo creando anelli di fumo. Non aveva un’espressione triste, sembrava abituato a quel luogo, piuttosto dava l’impressione di annoiarsi come colui che aspetta che succeda qualcosa da un momento all’altro, che possa spezzare di colpo l’opprimente monotonia, anche l’arrivo della morte, sarebbe già qualcosa di nuovo, di diverso. Il cavallo, invece, al contrario dell’uomo, mostrava un’espressione profondamente triste, sommessa, rassegnata. Quasi come capisse e partecipasse all’atmosfera del luogo, muoveva uno zoccolo, poi l’altro, quindi rimaneva immobile come in attesa e poi riprendeva nuovamente a muoversi con ritmi lenti ma perfettamente intonati, come il direttore d’orchestra d’una litania funebre. Gli occhi dell’animale, coperti e bassi, sembravano impenetrabili, persi nel vuoto. Il guidatore del carro, ogni tanto volgeva lo sguardo sul quel povero ragazzo handicappato e in quei momenti pareva più umano, meno assente. Ci fu un attimo, ma fu solo un momento, in cui i nostri occhi s’incontrarono. Tuttavia fu un tempo sufficiente per farci apparire strani l’uno agli occhi dell’altro. Lui si stava chiedendo sicuramente cosa ci facesse un ragazzo con i libri di scuola al cimitero di mattina ed io, a mia volta, mi domandavo come facesse un uomo maturo a rimanere così calmo, così tranquillo in un luogo che infondeva tristezza. In quei momenti, pur nella banalità di quelle considerazioni, paradossalmente, la vita mi sembrò più bella, proprio perché piena di situazioni strane ed imprevedibili, degna di essere vissuta fino in fondo. Era avvenuto l’incontro occasionale di due età così diverse l’una dall’altra, di due modi di essere e di pensare così difformi, almeno in apparenza, era la vita stessa che ai miei occhi si faceva apprezzare con la sua varietà, capace di apparire triste e ironica nello stesso frangente. Il guidatore del carro, il ragazzo handicappato, io stesso che mi trovavo lì anziché a scuola, il cavallo più umano dell’uomo, tutto pareva diventare di colpo favola e noi eravamo trasformati in attori, inconsapevoli protagonisti di una recita strana, ma affascinante, piccoli pezzi di un immenso e bellissimo mosaico che è l’umanità intera con le sue sofferenze, le sue eterne contraddizioni, le sue stranezze, ricca del suo scibile umano, fotografia di un mondo grigio ma che per magia può diventare a colori. Furono tutte considerazioni che contribuirono a regalarmi un pizzico di gioia in quel luogo triste, ma fu solo effimera e di breve durata, come una goccia d’acqua tiepida che, cadendo per sbaglio dentro un bicchiere d’acqua gelida, dà solo l’illusione di riscaldarla, non riuscendo a mitigare il ghiaccio che v’è dentro. Ben presto, infatti, ritornai in sintonia con l’atmosfera di quel luogo e, d’indole malinconica e facilmente orientato alla tristezza quale io sono, mi venne subito in mente l’idea di fare un confronto, quasi un parallelismo, tra l’angoscia del mio animo e l’aria di morte che si respirava lì dentro, aria che avvolgeva ogni cosa di quel luogo anche quell’esile farfalla che sperduta v’entra dentro, così per caso, perde i suoi colori rubati all’arcobaleno e in breve muore, riposandosi, non uscendone più.

Dovevo però riconoscere e ammettere che quel posto era anche particolarmente adatto a suscitarmi pensieri profondi, a sviluppare in me una introspettiva meditazione, specie sulla caducità della vita terrena, era capace persino a ispirarmi su tematiche consone al mio stato d’animo. In particolare, la mia attenzione fu richiamata come un flash da una scritta posta subito dopo l’entrata, quasi di fronte alla stanza del custode. Erano parole di color nero vistoso incise su un marmo bianco, virgolettate che dicevano: “Fummo come voi, sarete come noi”. Anche questa lettura contribuì a farmi meditare ulteriormente. La reputai subito significativa, perfettamente corrispondente al destino dell’uomo, rivelava una cruda e amara verità per chi non avesse il dono della fede. Se l’uomo ponesse al centro dei propri pensieri l’idea della morte così come ho sempre fatto io sin da bambino, non riuscirebbe più a vivere tranquillo conoscerebbe la paura, ma sarebbe sicuramente meno materialista e meno egoista. Se poi dovesse non credere in Dio, allora sarebbe proprio un dramma senza consolazione e vana risulterebbe la parola alla catastrofe dell’anima. Sarebbe la morte, il nulla eterno, l’annientamento totale, definitivo. L’uomo messo completamente a nudo, spogliato da ogni sciocca vanità, si troverebbe con le spalle al muro e la parola fine davanti, sull’orlo del baratro e si estinguerebbe così, nel riposante approdo d’un obitorio. Era quella mattina una giornata non festiva ed io notavo che al cimitero vi era pochissima gente. Questo fatto però non toglieva la mestizia a quel luogo, ma anzi lo rendeva ancora più solitario e abbandonato.

Questo scenario di morte che lì dentro si ripeteva ogni giorno, ogni ora, forse anche ogni minuto, era qualcosa che infondeva nell’animo un non so che di profondamente sommesso che riconduceva inequivocabilmente alla pace, al silenzio. Quella paura iniziale che avevo avvertito non appena entrato al cimitero, più per il fatto insolito di trovarmi lì che per un vero e proprio timore, di colpo, svanì ed io, come se fossi ormai preparato al peggio, mi sentivo come quel bambino che, osservando l’acqua gelida del mare, decide di tuffarsi improvvisamente, per non sentire più freddo poi, quando l’onda lo può travolgere e lui meno se lo aspetta.

A questo punto, cari lettori, per esprimervi meglio le mie sensazioni, ho inserito nel libro una mia poesia scritta proprio per quel momento. Se il lettore riuscirà a cogliere e a provare le stesse emozioni avvertite dal poeta, il compito di chi scrive si è realizzato e l’autore può ritenersi sodisfatto. Io mi auguro che ciò si verifichi attraverso la lettura di questi miei versi.
MORTE SOLITARIA IN UN CIMITERO DESERTO

 

Odore di morte

ricordi segnati da croci

paura angosciosa

solitudine senza fine.

Tristezza cupa

silenzio assopito

pianti accorati

rosario di dolore.

Lumicini ardono

crisantemi ornano le tombe

fotografie di gente che non è più

ombre vaghe di cipressi

aria che trema di fiamme e di preghiere.

Io che diverrò cenere

sarò ombra di nulla

niente rimarrà di me

morirò come tutte le bestie divorato da vermi.

E quale conforto potrò avere,

perduto tra volti sbiaditi di fotografie d’epoca,

dagli occhi tristi dei posteri?

Una bimba inginocchiata su una tomba,

col cuoricino infranto e gli occhi che s’apron a stento,

unisce le sue labbra e per due volte le dischiude

supplica e singhiozza un nome santo,

il nome della sua mamma.

Un angelo sceso dal cielo

su lei schiude le ali,

e, non visto,

nelle mani raccoglie quelle stille viventi

per il suo Signore.

Io, smarrito, da solo, come un uccellino spaurito

vado per le vie di un cimitero deserto.

Con la mente nel buio

cerco la mia tomba.

Qui dentro tutti mi somigliano

loro morti davvero, io defunto dentro

con i morti ci so stare.

Io muoio pian piano così

nel triste rosario delle cose che non han ritorno

ma tutto rimarrà com’era.

La mia vita è inutile

nessuno mi ricorderà

nessuno s’accorgerà che sono andato via.

Io solo nella vita,

io solo con la morte addosso.

Tomba abbandonata in un angolo oscuro,

faccia sbiadita dal pianto

occhi già ciechi nel buio

rughe sul mio viso ancora giovane.

Anima mia stanca

ricordi che non ho avuto mai

sogni svaniti nel nulla

speranza affievolita dal tempo

amore che non mi riscalda più

giovinezza che non è più mia

morte che mi viaggia accanto.

Questo son io, altre parole non servono.

Eppure la voglia di gridare

di ridere forte

di spaventare la morte

c’è ancora dentro me.

Eppure sono figlio della luce

brillo sotto il sole

ho ali per volare

un cuore per amare

una mano tesa ancora c’è

ma il mio sangue è fragile per vivere, troppo fragile!

Getto via l’acqua pur assetato di vita

e chissà, forse qualcuno mi capirà

mi darà il suo sorriso

mi salverà.

No, il buio, no!

Ma poi torno in grembo all’eterno destino.

Il tempo è crudele con me

mi strappa via dalle cose che sentivo più mie.

La vita è una corsa senza fine

gli anni scivoleranno su me

ed io non potrò più fermarli.

So bene che soffrirò, invecchierò,

piangerò tanto, morirò.

Aspetterò in silenzio.

Questo tempo nemico della bellezza sciuperà il mio corpo

trascinerà via la mia ultima fiamma

disperderà ogni mia speranza

qualcun altro la raccoglierà.

Tutto fugge e va via veloce

ed io mi accorgo che non mi resta niente,

forse solo una lacrima perduta in fondo al mio cuore

forse solo il bene che ho dentro che mi fa amare di più.

Ed io sto male

e piango in silenzio

nel buio della notte.

Nascondo nel pianto la mia poesia.

Signore,

dammi la forza di supplicarti ancora,

di chiederti amore.

Le mie parole in una preghiera

volano in cielo

e fanno piangere Dio.
LUNGO LE VIE DEL CIMITERO

 

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Con questi pensieri, completamente assorto nel silenzio e nella meditazione, percorrevo le vie del cimitero. D’un tratto, uno scossone intimo, simile a quello che mi aveva spinto a recarmi fin lì, mi elettrizzò nuovamente e più forte di prima, salendo sin dal profondo del mio io.

Quella solita voce vaga ed indefinita, tornò a farsi sentire in me e a dirigere i miei passi che poco prima erano incerti e senza una direzione ben precisa. Camminai parecchio, senza mai fermarmi e sempre salendo, attraverso curve, strade larghe e strette che si alternavano tra loro, che giravano e poi salivano ancora, sembrava un labirinto, una salita senza fine. Man mano che la strada procedeva verso l’alto, il tempo si mostrava sempre più brutto, minacciava la pioggia. Il vento che nella mia città non manca quasi mai, ora sibilava tra le tombe, sembrava il flebile lamento delle anime dei defunti. Soffiava spingendo le foglie cadute per terra dagli alberi che ondeggiavano qua e là, leggere come piume, era la danza della malinconia, la poesia delle solitudini, dell’inane, del nulla. S’insinuava prepotente fra i cipressi, alberi silenziosi più dei morti. Il vento lo sentivo dappertutto, echeggiava fin dentro le mie ossa, regnava nelle mie vene mischiandosi con il mio sangue, unendosi col mio respiro. Lo percepivo in ogni alito di vita, in ogni particella d’aria, perfino sulle mie labbra, fredde e gelide come se baciassi la bocca d’un cadavere. Ogni tanto si udiva dall’alto il canto di qualche uccello sparuto, il rumore d’un paio d’ali, ma si interrompevano di colpo in un silenzio tombale, assoluto, come per una forma di insolito rispetto a quel clima che non era rivolto al canto ma all’elegia più sommessa, più cheta. Le nuvole dalle forme più bizzarre ed inquietanti, giravano sopra la mia testa, il cielo diventava sempre più scuro, pauroso ma non sembrava avesse la forza né la voglia di piangere le sue lacrime di pioggia. Ma anche se l’avesse fatto, io avrei continuato imperterrito il mio cammino, avrei portato a termine la mia missione. La pioggia non mi avrebbe bagnato, non mi avrebbe fermato. Com’era lontana la mia Messina solare! Le giornate estive, le spiagge, i primi raggi del mattino. Tutto riconduceva al nero, alla malinconia, al mistero. Non avevo più neanche la possibilità di riflettere sul motivo per il quale un ragazzo di 19 anni si trovasse lì, e non davanti alla cattedra, in mezzo ai suoi compagni di classe, per fare quello che era giusto e logico fare. Ero intento, quasi in trance, a seguire la voce che mi esortava a proseguire il mio strano viaggio, spingendomi oltre il limite, oltre quella barriera che divide quello che noi esseri terreni poveri fantocci di creta chiamiamo reale, dall’irrazionale, dal soprannaturale, da ciò che vive da sempre intorno a noi, nei nostri sensi, ma che non percepiamo. Un mondo totalmente sconosciuto che per adesso, rinchiusi in questa limitata e circoscritta dimensione, noi non possiamo vedere ma che esiste, è soltanto invisibile ai nostri occhi, come qualcosa che non si fa mai toccare ma che c’è e ci sarà sempre. Man mano che salivo, la città appariva sempre più lontana e irraggiungibile, mentre chi mi stava aspettando da tempo, sembrava sempre più vicina. Mi staccavo dal mondo dei vivi per avvicinarmi a quello dei morti, conseguenza assolutamente indispensabile, abbandonare l’umano per essere tutt’uno col soprannaturale. Il mare e la costa calabra che prima s’intravedevano di rado, ora sparivano del tutto, eclissati interamente dai cipressi che parevano fantasmi danzanti, mostri giganteschi. Mi trovavo in una dimensione senza età, il mio orologio con le sue lancette ferme, statiche, pareva disegnato, per niente reale. Non conoscevo più lo scorrere del tempo.

La giovinezza era vecchiaia e la vecchiaia tornava ad essere giovinezza. Regnava l’armonia del silenzio come un Dio della quiete, disturbato solo dai battiti del mio cuore che acceleravano via via che mi avvicinavo alla meta ma era bello ed emozionante anche in quel modo, era magico, era folle. E pensare che laggiù, coperta dagli alberi, doveva pur esserci ancora Messina, caotica e frenetica come tutte le mattine, con i suoi mercati, i suoi negozi, la sua gente che si riversava per le strade, ma tutto questo a me sembrava inconsistente, insignificante, totalmente estraneo, superfluo. Era mattina ma poteva essere benissimo sera, notte. Era inverno ma poteva essere primavera per la speranzosa attesa d’un’avventura indimenticabile che stavo per vivere in prima persona e da solo. In fondo ero solo un ragazzo strano e solitario, ma in quel momento ero immortale, senza età, quasi prescelto da una forza misteriosa e sconosciuta ad essere l’attore principale d’un film senza finale, d’un gioco senza spiegazione, d’un incontro senza precedenti, di una storia alla quale, anche se avessi provato a raccontare, nessuno avrebbe mai creduto. Ma ecco che ora, cominciavano a crollare dal cielo le prime goccioline d’acqua che restavano tali senza mai divenire temporale. Avevano il solo compito di rendere l’atmosfera ancora più coinvolgente,magica, inquietante, celestiale. Erano sorelline gemelle, piccoli angioletti che cadevano dal cielo giù verso la terra come finissime particelle di polvere di stelle. Piccoli angeli sotto forma di acqua che cantavano con le loro voci di bambine la loro sinfonia, per me e soltanto per me,mandate apposta da chi mi stava aspettando in segno di festa, per creare una dolce accoglienza. Mi accarezzavano i capelli, il viso, le mani, dappertutto. Continuavano a cadere dal cielo senza pausa, danzavano, sperimentavano la terra. Ma fra la terra e il cielo, era più bello il cielo, e così preferivano tornare indietro, lassù, da dove erano partite pochi istanti prima, proprio come quei bambini piccolissimi che nascono su questa terra e muoiono subito dopo, magari anche perché una madre non li vuol far nascere qui e a loro non resta che tornare in cielo, ritornando ad essere angeli, sostituendo il bacio non dato dalla mamma con un altro paradiso, molto più bello, vero, eterno. Tutto questo accadeva solo a me e non so spiegarmi tuttora il perché. Proprio a me che non avevo nulla di speciale rispetto agli altri ragazzi della mia età. Anzi, a pensarci bene, qualcosa in più l’avevo da sempre. Come ho fatto a non pensarci prima?

Avevo qualcosa di grande, di estremamente importante e vitale, di immenso. Qualcosa capace di far volare anche chi non ha mai avuto ali, capace di rendere ricchi pur avendo solo una capanna. Qualcosa che Dio ha creato per gli uomini ma che nessuno di loro prende più in considerazione, schiavo della materia e dei problemi pratici quotidiani della vita. Quel qualcosa che avevo in più e che ancor oggi sento di possedere, è la grande voglia di sognare che invade la realtà e la fa scoppiare da tutte le parti. Ma soprattutto la volontà e il desiderio di credere ai miei sogni. Soltanto io, infatti, potevo credere alla storia che vi sto raccontando. Ma sono sicuro che esistono ancora su questa terra, esseri simili a me. E chi sono? Sono loro: gli artisti, gli ubriachi, i bambini,gli acrobati, i saltimbanchi, i protagonisti delle fiabe principesse ed animali parlanti, tutti angeli incompresi caduti su questa terra per sbaglio o per fortuna, capaci di cogliere il vero senso della vita, l’essenza dell’anima. È l’umanità a colori, la vita che ridiventa sogno, l’uomo che dà la mano a Dio, è la luce che non si spegne più.
VERSO IL CONVENTINO

 

 

Non so per quanto camminai avendo perso completamente la cognizione del tempo né dove arrivai non avendo neanche quella dello spazio, era come se fossi in zona zero, in terra di nessuno. La mia attenzione però divenne improvvisamente vigile non appena mi trovai a percorrere una strada totalmente diversa da quelle che avevo attraversato in precedenza. L’asfalto, infatti, cessò di colpo e la strada si restrinse notevolmente sino a divenire una stradina dal fondo di roccia e fatta di sassi ma continuava ad essere percorribile lo stesso, capace di far entrare sì e no 4 o 5 persone disposte a fianco l’una dell’altra. Contemporaneamente anche le tombe apparivano del tutto diverse, tutte di un altro stile. Le fotografie diventano via via volti e statue intere di marmo. Erano autentici capolavori di scultura raffiguranti gente lontanissima dai giorni attuali, chiaramente di un’altra epoca, di inequivocabile fisionomia ottocentesca. Anche l’atmosfera che si respirava era totalmente nuova, anche se paradossalmente antica, inevitabilmente trasformata da ciò che oggettivamente si vedeva. Era come se di colpo il tempo avesse deciso di fermarsi e tornare indietro di oltre cento anni. Non vi era più nulla ormai del tempo attuale, tutto parlava del passato, dell’Ottocento.

Io non avvertivo più niente intorno a me né il vento né la pioggia né il freddo. Vivevo immerso in una condizione più spirituale che fisica, magica più che mai, completamente estraniato, corpo ed anima, dal mondo reale, ormai del tutto rapito da quello circostante. Mi trovavo in un luogo sconosciuto, quasi mistico,  che sembrava creato per i poeti e per la contemplazione. Il mondo moderno, quello che era stato fino a poco tempo fa il mio mondo, era ormai lontanissimo, sparito del tutto ed io non lo percepivo e ricordavo più. L’effetto che quel luogo aveva su di me, valeva assai di più di quella che era stata la mia vita di sempre, ormai lunghe distanze mi separavano da essa. Sognavo ad occhi aperti mille avventure, mi arrivava l’eco di mille sirene, ero l’eroe di mille favole. Il cuore non mi chiedeva di tornare alla mia base ma mi esortava a restare lì.

Ero ormai altissimo, quasi in cima, nella parte più alta ed antica del cimitero di Messina. La salita era quasi terminata. Ai lati della stradina, altissime, maestose e sublimi per bellezza e suggestione, si protendevan fiere le tombe dell’Ottocento. Erano statue di uomini, donne, vecchi, bambini. Tombe del mio tempo, ormai non ve ne erano più. Ero completamente circondato da antiche lapidi. La prima immagine che rapisce la vista di chi si trova a salire lassù, è quella della statua di un bambino di quell’epoca, di circa otto anni, seduto su una roccia, vestito come un piccolo marinaretto che par ti guardi e ti dica: “Salve, benvenuti nel regno dell’Ottocento”. Fa quasi da prologo ad una serie infinita di monumenti, uno più bello dell’altro, che da quel punto in poi, inondano quella zona del cimitero, in ogni direzione e da qualunque parte. Immagini di uomini nobili e donne vestite all’antica si vedono ovunque.

Colpiscono i loro baffi folti e pittoreschi, la loro strana pettinatura, l’abbigliamento così diverso da quello del mio tempo. Tutto riportava ad un’altra epoca. Le sensazioni che provavo erano a dir poco indescrivibili, mi sentivo proiettato indietro nel tempo pur avendo la mentalità moderna. Di statua in statua, di emozione in emozione, arrivai in un punto in cui, finalmente, la salita era finita. La salita ma non certamente il viaggio.

Dovevo ancora conoscere l’entità più importante e misteriosa, colei che mi aveva trascinato in quel posto contro la mia volontà, forse avevo visto fin ora solo una minima parte di quanto avrei dovuto vedere o addirittura non avevo veduto ancora nulla. La salita finiva proprio davanti all’entrata di una chiesa bellissima e altissima, tutta stile ottocentesco che io prima di allora non avevo mai vista pur trovandosi nella mia città. Non mi rimase altro che restare a bocca aperta e quasi senza fiato la contemplai. Ero arrivato ormai dove sarei dovuto arrivare. Mi trovavo in quella parte altissima del Cimitero di Messina che oggi si chiama “Cimitero degli Inglesi” ma che in quel periodo si chiamava semplicemente “Conventino” dove erano e sono tuttora sepolti, i nobili messinesi vissuti nel secolo dell’Ottocento.

Ed ora, cari amici lettori, come quel ciclista che dopo una faticosissima salita, decide di fermarsi un momento per bere un sorso d’acqua e riprendere fiato, prima di ripartire nuovamente, è necessario che anch’io mi fermi un momento per darvi delle doverose notizie storiche che reputo interessanti circa l’origine di questa favolosa chiesa che è situata nella parte più alta del cimitero della città dello stretto.

A tal proposito, ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato nelle ricerche fornendomi notizie storiche utili al racconto. In particolare tutti i custodi e gli addetti alla vigilanza e al servizio di biblioteche, annali storici ed archivi storici.

STORIA DELLA PARTE PIÙ ALTA ED ANTICA DEL CIMITERO DI MESSINA

 

 

Nella seconda metà del secolo dell’Ottocento, numerose epidemie contagiosissime, infestavano la città di Messina come tutto il meridione. Tisi, colera, germi di tutti i tipi erano a quel tempo tutte malattie incurabili. Il contagio si diffondeva vertiginosamente, specie nei bambini la mortalità era elevatissima. Il tasso di vita era spaventosamente basso, infatti oscillava tra i 40 e i 45 anni di età.

A questo si aggiungano la miseria, la guerra, le scarse condizioni igieniche. Quindi per giustificate esigenze sanitarie, si sentiva il bisogno e subentrava anche la necessità di appartare in luoghi, i più solitari possibili, gli infelici malati. Così gli ospedali si riempirono ma non bastavano e si dovettero creare posti isolati, tra i quali il Lazzaretto costruito nella zona del porto, là dove attualmente vi è la Difesa, che raccoglieva tanti bambini colpiti soprattutto da tisi. Lo spettacolo era pietoso. Grida, urla, pianti, sputi, dolori. Lì morì, colpita da quella che a quel tempo era una terribile e incurabile malattia cioè la tisi, la protagonista del mio romanzo. Il posto più isolato però fu costruito nella parte più alta ed antica del cimitero, l’attuale Conventino. Lì venne fatta una chiesetta stile ottocentesco, particolarmente alta. Venivano portati i malati contagiosi come fosse un mini ospedale. Il posto era alto e difficilmente accessibile, quindi dava una discreta garanzia contro il contagio. Ma i morti crescevano e quelli che erano ancora vivi, a contatto con essi, decedevano anche.

Così quella chiesetta si trasformò da sfortunato ricovero, in luogo dove venivano sepolti i morenti. Poi col tempo e col cessare delle epidemie, il posto fu abbellito grazie all’impegno e alla bravura di alcuni scultori messinesi e in particolare di Antonio Saccà che costruì numerose tombe fra le quali anche quella della protagonista del romanzo, dando così al luogo un aspetto profondamente artistico. Vi erano sepolti i nobili messinesi per lasciare ai posteri un glorioso ricordo delle loro memorabili gesta contro l’oppressione borbonica. Difficilmente, anzi direi assolutamente, è possibile trovare sepolta gente comune essendo troppo oneroso poter pagare lapidi davvero imponenti.

Nonostante la terribile catastrofe del 1908, il cosiddetto Conventino resistette, poi il resto del cimitero si dovette rifare. Quindi oggi il Conventino si presenta come la parte più antica del cimitero, la più alta e bella che il tempo non è riuscito a falciare con la sua potentissima forza distruttiva ed è per noi messinesi, fonte di orgoglio e di tradizioni veramente superbe e meritevoli, oltre che un saggio di arte e scultura non indifferenti come vanto per la città. Infatti è bene ricordare che il Cimitero di Messina risulta essere il secondo d’Italia per grandezza e trova posto tra i più belli in assoluto, non solo in Italia. Ed è proprio da quella parte, cioè dal Conventino, che nacque il Cimitero di Messina. E il Conventino oggi vive imperterrito ma totalmente nell’abbandono e senza anima viva.

È un luogo altissimo, calmo, silenzioso che ispira timore ma contemporaneamente pace e meditazione. C’è d’averne paura ma lo si va a cercare. Molti sono i nomi illustri che vi sono sepolti ma, per ragioni di tempo, mi limito a non enunciarli per motivi di non particolarità, essendo tutti degni d’essere menzionati.

E adesso, cari lettori, dopo avervi fornito queste notizie storiche che sono servite a farvi gustare meglio il racconto, scopriamo insieme la struttura architettonica della chiesa, in maniera molto sommaria per non distrarvi troppo dalla trama e dalle vicende del racconto stesso.

 

DINANZI E DIETRO LA CHIESA

 

 

Dinanzi la chiesa l’atmosfera è magica, celestiale, mistica, rapisce e trasporta. È difficile descrivere così tanta bellezza. Ma è mio dovere provare almeno a farlo. Proprio all’entrata, la prima impressione che si ha, è quella di essere aspettati da tempo con un’attesa quasi bramosa. Sembra esserci una festa pronta ad esplodere quando vi si entra dentro. La chiesa è stupenda, pittoresca, neanch’io so spiegarmi come abbia fatto a resistere al forte terremoto del 1908 pur essendo così alta, un sisma devastante che ha raso al suolo l’intera città dello stretto. Tutta in stile ottocentesco, la chiesa ha una porta color rosso porpora, poi s’erge maestosa ed invincibile con due colonne laterali imbattibili che sembrano sfiorare il cielo. Al centro, la chiesa sale sempre più su progressivamente, restringendosi via via che s’avvicina alla cima. A circa metà della sua altezza, vi è una finestra senza più vetri e un balcone arrugginito sempre attorniati da colombi ed altri uccelli melodici.

Il vento apre e chiude dolcemente la finestra, il sole riflette su di essa e agli occhi di qualunque osservatore, sembra di vedere affacciata una dolce ragazza ottocentesca vestita di bianco che guarda, saluta, ride, scompare e riappare e poi scende giù di corsa per le scale, apre la porta della chiesa e gli corre incontro con i capelli al vento.

Dietro la chiesa si avverte un fascino tutto particolare e suggestivo. Vista di spalle sembra quasi magica, finta, appartenere a un mondo irreale, fiabesco ed è ancora più bella. S’affaccian piccole finestrelle come tanti oblò che a un certo punto spariscono, finché s’erge una cupola che inizia grossa e s’invola fine, fino a confondersi con l’azzurro del cielo.

 

ALL’INTERNO DELLA CHIESA

 

 

Ed io mi trovavo lì per la prima volta davanti alla chiesa e stavo per varcare la soglia.

Quella porta color rosso porpora sempre chiusa, l’unico giorno che desideravo ardentemente entrarvi, stranamente la trovai socchiusa in atto di chi invita a farlo. Cautamente, portando avanti il piede sinistro, poi il destro, tastando con la mano, aiutandomi con un pezzo di legno trovato lì per difendermi da possibili spiacevoli incontri, un po’ come quel cieco che cammina aiutandosi col tatto sconoscendo ciò a cui va incontro, io pian piano, in questo modo entrai. La prima vista varcando la soglia, fu quella di una stanza polverosa, vuota, abbandonata da tanti anni ormai. Il silenzio veniva interrotto a squarci da strani rumori che ora vi entravano, ora vi uscivano dalla finestra, perché quella stanza aveva una finestra sbarrata, arrugginita che sporgeva dietro la chiesa verso altre tombe. Ai lati del tetto v’erano appesi due quadri che portavano foto raffiguranti due Madonne quasi sbiadite. I due quadri erano piccoli e le due Madonne però erano diverse l’una dall’altra. Una aveva l’espressione triste, compianta, l’altra sembrava un po’ più rassegnata certa di trovare ristoro nella carità cristiana, nell’aiuto di Dio. Nel guardare quei quadretti che spiccavano in mezzo al muro bianco, in parte smangiato, mi vennero in mente tutti coloro che dovevano essere ricoverati lassù in tempi passati, confortati dall’aiuto della Madonna ed io immaginavo i dolori, i pianti, le preghiere, le invocazioni che ora tornavano come un’eco nella stanza che sembrava pacata, addormentata, serena, straordinariamente elevata al cielo. In cima al tetto, v’era appeso un lampadario a forma di cerchio che teneva strette delle lampadine spente, alcune delle quali consumate dal tempo, come quelle candele che vengon meno affievolendosi dinanzi all’altare. Da quella stanza, vi si entrava in un’altra tramite un’apertura uguale alla prima però senza più porta. Entrando, per terra, vi erano pezzi, schegge di legno penso della porta stessa. In quell’altra stanza di dimensioni e di atmosfera simili alla prima, io vedevo la cosa più bella: un crocifisso intatto, vivente, a grandezza d’uomo, con uno sguardo fisso che sembrava dire: “Venite a me voi tutti che siete afflitti ed io vi consolerò”, e chissà quanti moribondi del passato così han fatto. Intorno alla stanza, v’erano delle sedie, almeno una ventina, alcune delle quali rotte. Penso servissero per ascoltare la messa, lo capivo infatti osservando un vecchio incensiere abbandonato per terra come un barbone addormentato, e lì vicino, boccette di vetro, calici e roba simile che riconducevano facilmente alla comunione e all’estrema unzione, sacramenti che accompagnavano e insieme infondevano speranza in quel luogo di sofferenza e disperazione. Sopra quel crocifisso carismatico che io continuavo ad ammirare del tutto rapito, v’era una chiesetta in miniatura uguale a quella dove io mi trovavo. Credo che sia stata posta sopra l’immagine del Cristo, per simboleggiare l’elevazione divina dei perseguitati dalle malattie verso Dio stesso, tramite suo figlio Gesù. La terza ed ultima stanza nel bassopiano della chiesa, era anch’essa come le altre, anch’essa conteneva delle sedie, una decina circa, sparse sparpagliatamente. Per terra, v’era un escremento umano che mi fece intuire che qualcuno prima di me, doveva essere salito fin lassù, mi domandavo chi, visto che la porta la trovavo sempre chiusa.

Nell’angolo più nascosto della stanza, come un cane orfano del padrone singhiozza e s’accovaccia per terra, silenziosamente, così v’era posto un organo con una tastiera unica e scordata, da tempo mai più suonato.

Io, d’istinto, mi avvicinai e provai a schiacciare quei tasti polverosi e molli ma non vi usciva suono, solo silenzio, eppure io avvertivo, nel tastare quell’organo, una celestiale melodia che sembrava trascinarmi in paradiso.

E pensavo che tutti coloro ch’eran morti lì, e furono davvero tantissimi, ora dovevano essere felici per l’eternità. E così la mia pietosa compassione divenne certezza, come il chiarore d’una luce lontana che si scorge alla fine di un tunnel, in mezzo a tanto buio. Non so dirvi cari lettori, se quelle strane sensazioni che avvertivo lì dentro, erano dovute a fenomeni paranormali o a suggestioni naturali, certo è che sia l’una, sia l’altra ipotesi eran perfettamente valide visto la misteriosità di quel posto.

Poi, di colpo, restai senza fiato ed immobile e cominciai subito dopo con passi certi e misurati, a dirigermi verso un sottoscala dove saliva una scala pericolante a chiocciola. Lentamente provai a salire cercando di arrivare in quella finestra misteriosa per affacciarmi anch’io da dove sembrava ci fosse il fantasma d’una dolce ragazza vestita di bianco con i capelli al vento, ma più salivo e più mi accorgevo che il rischio aumentava. La scala infatti cominciava a cigolare, era fatta di uno strano tipo di legno.

Io, ormai del tutto rapito da quell’incantesimo, ero lì deciso a salire sino in cima come se quella scala simboleggiasse il mistero ma, ad un certo punto, la vidi spezzata, non ho mai saputo il perché né se poi più su sarebbe ritornata sana, ma l’impressione che ebbi in quel momento, fu quella che qualcuno o qualcosa inspiegabile, non volesse farmi arrivare nemmeno ad un quarto dell’altezza di quella chiesa. Così, deluso, ritornai indietro, chiusi la porta, e ormai coraggioso e forte, mi avviai al di fuori per scoprire fra le antiche tombe, quella che ormai sembrava fortemente vicina, sembrava fortemente chiamarmi.

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TRA LE ANTICHE TOMBE

 

cimitero3

Non appena uscii dalla chiesa, mi trovai perso tra le tombe antiche dell’Ottocento, ma nello stesso tempo ero felice perché sentivo che quel qualcuno che mi stava chiamando, era vicino anche se molto probabilmente perduto fra tutte quelle che mi circondavano. Mi trovavo in un vialetto, una specie di villa tutta stile ottocentesco. Al centro, come una passerella, vi era una strada lunga e stretta che finiva proprio davanti alla porta della chiesa. Ai lati di questa specie di passerella, tra l’erba altissima, si protendean fiere le tombe dell’Ottocento.

Erano tantissime, una accanto all’altra, una più insigne dell’altra. Da lontano mille statue, mille volti, sembravano uno solo che mi guardasse, che mi spiasse, sì mi spiasse, perché l’impressione che chiunque salisse lassù proverebbe, sarebbe quella di essere attentamente spiato, osservato con un occhio meticoloso e scrupoloso, come se tanta gente sconosciuta ed invisibile, vivesse con lui e intorno a lui, in altre dimensioni. Tutto ciò a me non suscitava paura. Io mi sentivo come uno straniero che dopo un lungo e faticosissimo viaggio, scampato fortunatamente ad un grave pericolo, superstite e sopravvissuto insieme, si trovasse involontariamente in un luogo prima d’allora sconosciuto, in mezzo a gente strana ma ospitale e cordiale che gli fa tanta festa, proprio perché mai nessuno da tempo veniva a trovarli. Così, con questa impressione, sentendomi ben accetto e perfettamente a mio agio, io camminavo scrutando le tombe una per una, leggendo e rivivendo la storia gloriosa d’ognuno di loro, osservando i loro volti, le loro espressioni, i loro baffi lunghissimi, i loro vestiti così strani per i giorni nostri, ma così nobili, così perfettamente intonati. Vi erano anche i bambini di quel secolo, vestiti come tanti marinaretti, in particolare mi colpì uno di loro di circa nove anni che io volli chiamare col nome di Beniamino.

Cari lettori, non posso come vorrei descrivervi una per una quelle numerosissime tombe, sarebbero davvero troppe e non sarebbe giusto nominarne alcune e altre no, quindi essendo tutte interessanti, mi limito a dirvi che vorrei prestarvi per un attimo i miei occhi che le han viste già, per farvi capire quanto in realtà erano belle e pittoresche.

Completamente assorto in un mistico silenzio, ad un certo punto, sentii dentro di me, una voce fortissima che mi chiamava da una direzione ben specifica e mi trovai, inconsciamente sospinto, di fronte ad una strana tomba antica, anch’essa dell’Ottocento. Restai ancora più silenzioso e assorto. Vedevo questa tomba. Provavo a darle un’immagine, una sagoma, una figura visto che non v’era un volto. Cercavo di immergermi nella sua lontana vita. Mi domandavo chi fosse, perché mi stesse chiamando, che cosa volesse da me, dove si trovasse la sua anima adesso, se mi vedesse, se mi sentisse, se fosse magari vicino a me. Come il contrapposto del mare che in profondità è pieno di vita, di alghe che nascono e muoiono, di pesci che mangiano altri pesci, di continue lotte per sopravvivere, e in superficie appare immobile e tranquillo, così erano i miei mille interrogativi che all’esterno non trasparivano perché io ero apparentemente calmo. Quella pietra era per me come una dolce ninnananna che cullava e portava a riposare tutti i miei incessanti pensieri. Il suo silenzio profondissimo era la sola ed unica risposta. In quella tomba senza un volto, v’era scritto semplicemente: “A Marietta Cianciolo, di Domenico Cianciolo e di Enrichetta Stagno d’Alcontres” e poi sotto: “D’animo e di modi soavissima, ebbe celestiali virtù, serena bellezza, e non compié 17 anni. O amore nostro, come faremo infelici, senza di te?”.

A questo punto, cari lettori, è necessario che io interrompa un attimo il corso degli eventi narrati, per soffermarmi sull’identità di questa strana ragazza, vissuta per quasi 17 anni, protagonista del romanzo. Devo quindi parlarvi indirettamente della famiglia Cianciolo di cui la ragazza portava il cognome, tralasciando di fornirvi informazioni sulla famiglia Stagno d’Alcontres che riguardava invece la madre di lei.

Vorrei aggiungere soltanto che in quel periodo nascevano molti matrimoni tra persone che appartenevano a famiglie nobili e quindi dello stesso alto ceto sociale proprio in virtù delle amicizie che intercorrevano tra le famiglie medesime. Da uno di questi matrimoni, nacque Marietta, la protagonista del mio romanzo. Essendo quindi figlia di nobili, era stata sepolta in quel posto.
NOTIZIE STORICO-BIOGRAFICHE

SULLA FAMIGLIA CIANCIOLO

 

 

I Cianciolo vissero agli inizi dell’Ottocento un po’ a Termini Imerese, un po’ a Santo Stefano di Camastra, allo stato di nobili in decadenza, di origine nobiliare antichissima.

Nella metà dello stesso secolo, le guerre e le continue epidemie che colpirono la Sicilia specie la zona di Palermo, dovettero farli emigrare a Messina, più relativamente tranquilla. In poco tempo i Cianciolo presero in mano la città a causa di numerose cariche politiche che erano state a loro attribuite. Dalla conoscenza di altre famiglie altolocate messinesi, crebbe in particolare l’amicizia che poi si tramutò in parentela grazie a parecchi matrimoni, con la famiglia dei Principi Stagno d’Alcontres che ancora oggi fa sentire la propria autorità sulla città, sia pure in forma minore essendo ormai in via d’estinzione il ceppo di famiglie nobili. Per ragioni di non esclusivo rapporto col racconto, ricordo ancora una volta, di non voler dare accurate informazioni sui Principi d’Alcontres, e di volermi invece soffermare sulla stirpe nobiliare, ormai estinta, dei Cianciolo, prendendo ora in esame le caratteristiche nobiliari di suddetta famiglia.
CARATTERISTICHE NOBILIARI DEI CIANCIOLO

 

 

L’arma cioè lo stendardo dei Cianciolo, era di colore azzurro, al braccio destro di carnagione alias armato al naturale impugnante una mazza di nero circondata da tre stelle d’argento.

Il nonno di Marietta, barone Vincenzo Cianciolo, patrizio messinese, tenente colonnello di fanteria, cavaliere mauriziano e della Corona d’Italia, decorato della medaglia d’argento al valor militare, figlio del barone Giuseppe e del fu barone Vincenzo e della prima moglie Girolama Aidone degli antichi Principi d’Alcontres e della fu Lucrezia Giano.

Il fratello di Marietta, Ernesto, assessore municipale, cavaliere della Corona d’Italia, due volte sindaco di Messina.

Il padre di Marietta, Domenico, già senatore di Messina, figlio del fu barone Vincenzo e della seconda moglie Maria Balsamo dei Principi dei Castellacci, marito di Enrichetta Stagno d’Alcontres dei Principi d’Alcontres.

Mentre la famiglia Stagno d’Alcontres continua ad esercitare un certo potere anche oggi sulla città, in forma minore, così non lo è per la famiglia Cianciolo che è decaduta a livello di nobiltà. Infatti, dopo accurate ed approfondite indagini, sono venuto a conoscenza che i pochi ceppi della famiglia suddetta esistenti attualmente, non sono neppure a conoscenza della loro antica nobiltà, neanche per sentito dire. Comunque oggi nella città di Messina, è rimasta solo una via che richiama a questa gloriosa famiglia ed è stata intitolata a Vincenzo Cianciolo, che era il nonno di Marietta, come precedentemente accennato.

Lasciamo da parte, cari lettori, le notizie storiche sulla famiglia Cianciolo e andiamo invece a descrivere quella che è la tomba di Marietta.

 

 

DESCRIZIONE DELLA TOMBA DI MARIETTA

 

 

Situata propria alle spalle della chiesa a una decina di metri circa, era visibile anche da molto più lontano. Portava in alto un marmo di circa 3 metri, rettangolare, firmato dallo scultore Antonio Saccà che, come già detto in precedenza nel racconto, era uno dei più illustri scultori messinesi dell’Ottocento. In cima al marmo completamente bianco con qualche disegno artistico dello stesso colore ma un po’ più ricalcato, vi era un cerchio dove sicuramente doveva esservi stato il volto di Marietta che stranamente, era sparito, forse solo da quella tomba, poiché i volti delle altre statue erano ancora tutti al loro posto. La mancanza di esso, la deducevo dai segni che erano ancora visibili all’interno di quella specie di cerchio creato apposta per inserirvi il volto stesso. Alla base, la tomba era completamente nuda senza l’ombra d’un fiore, come del resto ogni tomba di lassù, era davvero troppo il tempo passato dalla sua morte. Circondata da erba alta non curata e da trifogli, aveva intorno una catena arrugginita che avvolgeva completamente la sua lapide e quella del padre che era sepolto, accanto alla figlia, dentro la stessa catena. La tomba di lui però, anche se uguale per struttura e dimensione a quella di Marietta, aveva il volto infisso sul marmo. Era un uomo anziano, Domenico Cianciolo, un volto pallido, sereno, occhi incavati ma dolcissimi che mostravano una bontà delicata, velata, un’educazione composta, si vedeva dallo sguardo che era un nobile. La tomba più vicina a quella di lui e della figlia, era posta alla immediata destra, un paio di metri distante. Apparteneva ad una neonata vissuta appena 10 giorni dal 7 al 17 aprile del 1872. La bimba, dal nome non italiano, si chiamava Aline Wolf. Era una tomba a forma di bara di dimensioni uguali alla piccolissima bambina morta.

Il coperchio era addirittura mezzo scoperto, e lì sopra mi sedetti io a contemplare la pietra di Marietta, fra due tombe, una di una bambina di 10 giorni, l’altra di una ragazza di 16 anni che mi ricordarono ciò che io da sempre sapevo, che la morte non ha età. Ad esser sincero, non è che la tomba di Marietta avesse qualcosa, dal punto di vista estetico, di superiore rispetto alle altre, anzi ve ne erano di molto più belle anche di ragazze della sua stessa età, ma quella tomba era straordinariamente diversa da tutte le altre, sembrava vivere, parlare, gridare, pareva avesse un disperato bisogno di comunicare con me. Cominciarono così le mie illusioni sulla sua tomba e ci addentreremo, cari lettori, in questa storia che ha veramente dell’insolito, dell’incredibile.

 

 

ILLUSIONI SULLA TOMBA DI LEI

 

 

E così, quasi tutte le mattine, io salivo lì illudendomi di farle compagnia, di parlare con lei e di essere ascoltato. Nonostante fossi arrivato all’ultimo anno delle scuole superiori e quindi prossimo agli esami di maturità, avevo quasi smesso di studiare. La mattina, anziché andare a scuola, mi recavo al cimitero. Il pomeriggio, anziché studiare, frequentavo biblioteche e archivi storici per avere notizie sulla vita passata di lei. Ero diventato proprio un folle o forse lo ero anche prima, ma Marietta mi diede il famoso colpo di grazia. Ero perso, irrecuperabile. Di questa storia non ne parlai mai con nessuno né con amici né con i miei genitori. Volevo restasse un segreto ed ero consapevole che, anche se l’avessi detto a qualcuno, nessuno mi avrebbe capito e creduto, nessuno avrebbe potuto giustificare il mio comportamento. Ma ero felice così, non volevo coinvolgere nessuno, solo io e lei e nessun altro. Non mi importava più di nulla ormai né degli amici né della scuola, avevo trovato il mio vero motivo per vivere. Non esisteva pioggia o temporale capace di fermarmi, io ero lassù, ai piedi della sua pietra, col freddo e col caldo, col sole o con i fulmini. Le portavo rose sempre fresche, le compravo nuovi portafiori, curavo la sua tomba nei minimi particolari, guai se v’era un insetto fuori posto, io la rimettevo subito come doveva essere. In poco tempo, nonostante fosse una tomba antica, era diventata la più bella e curata dell’intero cimitero grazie a me. Vivevo immerso in queste magiche illusioni senza che lei mi avesse dato, in quei giorni, alcun segno di gradire le mie attenzioni. Io, nell’ingenuità della mia giovane età, mi ero quasi convinto che ormai lei fosse la mia ragazza. Ma la cosa più bella che ho fatto in quel periodo, è stata quella di scriverle, proprio come un innamorato, tre poesie che ora sottoporrò alla vostra attenzione, cari lettori, inserendole nel racconto in sequenza, una dopo l’altra, spezzando forse un po’ la trama del racconto, ma dando allo stesso, almeno mi auguro, una certa inclinazione poetica.
A TE MARIETTA (1855-1872)

 

 

A te Marietta!

che se sei stata la gioia, l’amore di qualcuno.

A te Marietta!

che non ti ho vista mai.

A te che t’immagino come un fiore

che sboccia, fiorisce e muore senza dolore:

chi potrà mai piangere o lodare

la tua cruda e gelida pietra

che forte ed imperterrita

sembra sfidare la collera del tempo?

A te Marietta!

che ti penso sempre

come una dolce ragazza vestita di bianco

che con il bruno dei tuoi capelli

formi un vistoso e sublime color di primavera

a te che guardando la tua tomba

mi s’incenerisce il cuore.

A te Marietta!

che nessuno un volto ti sa dare

e che con insistenza la tua immagine m’immerge

nel lontano passato della tua vita.

Non so chi tu sia stata

né saprò mai il motivo della morte che presto ti colpì

ma so con certezza che questa è la tua pietra

e che in essa il tuo corpo giace.

A te Marietta!

scrivo queste righe

per aggrapparmi all’illusione di un lontano ricordo

che mai ci fu.

 

Dedicata a colei che brevemente fu

e che mai in vita conobbi

 

 

L’IMMAGINE

 

 

Un bagliore improvviso

squarcia la mia mente assente

e dall’ignoto all’ignoto

ora fugge ora torna, ora torna ora fugge.

Pallida e soave

di dolcezza inebriata

m’appar dinanzi

ancor e sempre.

Nitida sagoma,

a tratti t’avvicini

di colpo, opaca t’allontani.

Le sciolte tue trecce

dal terreno mondo sembran distaccarmi

trascinandomi in sconosciute dimensioni

dove neanch’io so chi ero, chi sarò.

Fulgidi gli occhi tuoi

m’abbaglian forte

ed io ti sento in me

o sconosciuta immagine

di profondo mistero velata.

Non un volto, non una realtà

solo negletti ed esili fiori

ed un’antica tomba assopita accanto

per trattenere forte

l’enigma della tua sorte.
DESCRIZIONE D’UN RITRATTO FUNEBRE

 

 

Da lassù, in uno strano sogno, Marietta mi narrò del giorno in cui morì.

Quel suo lontano ricordo del 28 settembre 1872.

 

“Ancor limpido era il sole della mia giovinezza

anche se lì fuori con pioggia e vento

battea la morte alla mia porta

e con voce certa ma affannata forte mi gridava:

«Vieni Marietta, presto vieni».

Ricordo lontanamente che in un primo momento

un brivido di paura m’assalia fino a farmi tremar

ma poi aprendo nuovamente gli occhi

il composto sguardo di mio padre il mio coraggio mi ridiede

e mentre un prete mi donava l’estrema unzione,

io sentivo di dover andare fra le secrete cose.

Scendean dalle scale le mie cugine

tristi apparentemente ma contente e fredde nell’animo,

mi facean pena vederle illudersi ancor

di quella lor vana ricerca della terrena bellezza

che come un fiore dal petalo si strappa

e appassendo muore.

Suonava l’organo un bimbo mai in vita conosciuto

ma che allora sembraa d’averlo visto da sempre

e in quella dolce musica

stancamente mi si chiudean gli occhi

mai rinnegando quella serena bellezza

che sempre in vita m’avea contraddistinta.

L’ultimo mio sguardo nel pallore della morte

era rivolto verso mia madre

che addolorata ma mai rassegnata

l’ultimo bacio mi donava.

Ed ora dopo che il tempo tante orme ha cancellato

i miei pensieri son tanti ieri che nell’ignoto fuggon lontano

ed il mio oggi così come domani è armoniosa luce”.

 

E fu così

che dal sogno mi destai

completamente assente.
APPARIZIONE D’UNA FIGURA SOGNANTE

 

 

I giorni passavano in fretta, ne erano trascorsi una ventina circa dal giorno in cui vidi per la prima volta la tomba di Marietta, ed eravamo quasi alla fine del mese di gennaio. Io mi addentravo sempre più in questa insolita storia, lasciandomi ormai del tutto rapire dalla forza dei miei sogni, della mia fantasia, della mia immaginazione. Non riuscivo più a distinguere il limite oltre il quale il sogno svanisce per far subentrare la realtà. Sogno e realtà erano diventati per me un tutt’uno. Vivevo la mia illusione con gioia, entusiasmo, voglia di avvicinarmi sempre di più finché, proprio verso la fine di gennaio dell’anno 1984, quello che da sempre sognavo, stava per trasformarsi in realtà e avvenne così quello che più ci penso e più mi accorgo che ha dello straordinario, dell’incredibile. Finalmente ora, io potevo vedere Marietta.

Dolcemente chinata, quasi curva su quella che era la sua tomba, di abiti ottocenteschi vestita, illuminata da un raggio di luce come un tremulo brillio rapito così fugacemente dall’infinita luce divina, la vidi mentre coglieva quei fiori che io stesso le avevo portato sulla sua pietra. Li coglieva uno dopo l’altro fino a formarne un mazzo, poi si slegò una treccia dal bruno dei suoi capelli, e legò insieme quei fiori dai colori misti che profumavano di primavera. Io la osservavo attentamente, meravigliato e confuso, ma senza aver paura, una figura così sublime non poteva infondere timore ma solo tenerezza e profonda commozione. L’unica cosa che riuscivo a connettere nella magia di quell’istante, era che quella ragazza che stavo osservando, aveva un aspetto identico a come io stesso l’avevo immaginata.

Poi lei alzò il capo dolcemente, mi guardò e mi sorrise mostrandomi lo splendore d’un volto angelico pallido e soave, contornato da un alone di mistica bellezza, puntando i suoi occhi scuri penetranti, dritti e fissi sui miei, ed io, non potendo pur volendolo spostare i miei occhi in nessun’altra direzione, sostenni come ipnotizzato il suo sguardo.

E fu così che in quella mattina di gennaio, nobile nel portamento e aggraziata nei gesti, misteriosamente affascinante lei mi apparve.

A questo punto, cari lettori, ha inizio il primo dialogo con lei. Abbandono, ma solo per la parte relativa ai dialoghi, la narrazione in prima persona, per darvi una visione più oggettiva dell’avvenimento.

IL PRIMO INCONTRO

 

 

Manuel: Ma tu chi sei?

Marietta: Io sono Marietta, la ragazza che tu stai cercando.

Manuel: Ma non è possibile, è assurdo, non può essere, io sto sognando, ho un’allucinazione. Tu sei morta, non puoi essere viva.

Marietta: Sì Manuel, io sono morta ma posso rinascere grazie ai tuoi sogni, alla tua fantasia, alla tua immaginazione. Tu sei un ragazzo capace di trasformare in sogno e poesia la realtà ed è per questo che io ho voluto premiarti.

Manuel: No, non può essere, tu sei solo il frutto della mia immaginazione, la proiezione dei miei sogni, non puoi essere quella ragazza morta nel 1872.

Marietta: Sì Manuel, sono proprio io invece, la ragazza morta tanto tempo fa. Io ti conosco ormai, so chi sei, ti seguo da sempre, sono molto più vicina di quanto tu possa pensare. Io sono viva, viva, viva.

Manuel: Troppo forte! Ma allora è meraviglioso. Ma tu ci pensi? Ti rendi conto? Tu eri morta per modo di dire ed io sono ancora vivo ma nonostante questo io ti vedo, ti parlo, ti sento come se il tempo non fosse mai passato. Mio Dio, è troppo bello! è meraviglioso.

Marietta: Sì Manuel, e questo è avvenuto grazie alla forza creativa dei tuoi sogni.

 

COME LA VEDEVO

 

 

La sua voce era dolce e comune a quella di tante altre ragazze della mia città. Aveva infatti quel tipico accento messinese che si percepisce subito, specie per chi viene da fuori, pur parlando in perfetto italiano. Quella sua voce fina, contrastava un po’ con quel suo aspetto angelico, non perché non fosse gradevole all’orecchio, ma perché non possedeva quell’alone di mistero che era invece riscontrabile nella sua figura. La voce insomma sembrava più reale e umana del suo aspetto. Man mano che mi parlava e le nostre conversazioni diventavano più intime, anche la sua immagine si faceva via via sempre più normale, fino ad abbandonare del tutto quel non so che di inquietante e misterioso che aveva in lei quando mi apparve per la prima volta. Ad un certo punto, la sua fisionomia divenne talmente reale da sembrare assolutamente umana, tanto da poter essere scambiata tranquillamente per qualunque altra ragazza. L’unico indizio che mi riconducesse alla sua vera natura, mi era fornito dal suo abbigliamento che era del tutto ottocentesco e quindi la rendeva inevitabilmente diversa. Tutto questo però non sottraeva nulla al suo fascino ma la faceva apparire straordinariamente viva e reale, appartenente appieno alla mia dimensione, facendomi sentire perfettamente a mio agio con lei. Indossava un lungo vestito bianco che le donava molto e che le arrivava fin quasi ai piedi, con dei ricami fantasiosi dello stesso colore ma che si notavano perché d’un bianco più intenso. Era un vestito leggero e primaverile anche se a maniche lunghe in forte contrasto col periodo invernale di allora. Mi appariva vestita sempre allo stesso modo. Le scarpe erano nere, senza tacchi, anch’esse primaverili ma mi sembravano uguali a quelle usate ai giorni nostri.

Sicuramente dovevano essere per forza ottocentesche ma io, forse perché da sempre ignorante in fatto di moda, non lo capivo. A me davano quasi l’impressione di essere le scarpe di Cenerentola ed io mi sentivo il famoso principe azzurro. Il suo fisico era snello, non grasso e non magro, perfettamente giusto, adatto a indossare qualsiasi tipo di vestito. Le sue forme delicate non apparivano troppo evidenziate né particolarmente seducenti. Era alta quasi quanto me, 1,70 circa. La sua carnagione chiara era più da ragazza nordica che da siciliana ma serviva a farle aumentare il fascino perché spiccava col bruno dei suoi capelli e col nero degli occhi, quegli occhi sempre puntati sui miei quando mi parlava, quasi non riuscisse mai a distrarsi tanto da procurarmi un certo imbarazzo, una sottile pudica timidezza.

Il suo volto aveva perso quel pallore angelico, diventando d’un colore normale, persino solare. Le sue ciglia, il suo naso, i denti, la bocca, tutto di lei mi appariva perfetto senza nessun difetto. Era il suo un viso acqua e sapone, senza trucco, dai lineamenti delicati, che dimostrava esattamente la sua età, quasi 17 anni. Era sicuramente carina, direi bella ma non bellissima, non era dotata di un fascino eccelso. Mi sembrava umana, terribilmente umana.

Non faceva smorfie di nessun tipo né cambiava spesso d’umore ma aveva un bel carattere, sempre allegro, disponibile al dialogo, socievole. Dolce nei gesti, aveva però un qualcosa di alterato nel portamento, involontario, forse perché era nobile. I suoi capelli erano bellissimi, lunghi ma non troppo, ondulati, le arrivavano fino alle spalle. Erano bruni, del colore che a me piaceva di più in una ragazza, si era completamente tolta le trecce. Era, in conclusione, una ragazza normalissima, tranne un piccolissimo e irrilevante particolare, era morta più di cento anni fa.

Cari lettori, da questo momento in poi, il racconto assume le vesti del dialogo che io ho voluto chiamare “Dialogo della semplicità”, per mettere in evidenza come nella semplicità, e quindi nella purezza incontaminata dei sogni, si possono vivere esperienze ed emozioni trascinanti, uniche, di altre dimensioni.
DIALOGO DELLA SEMPLICITÀ

 

 

Marietta: Grazie Manuel per essere venuto a trovarmi.

Manuel: Figurati, lo faccio con piacere. Parliamo un po’ di te, vuoi?

Marietta: Certo.

Manuel: Come passavi il tuo tempo libero?

Marietta: La mattina uscivo con mia madre oppure con mia cugina o qualche amica, questo quando non c’era la scuola, specie nelle vacanze.

Manuel: Ma tu eri brava a scuola?

Marietta: Moltissimo, ero la prima della classe. Pensa che quando sono morta, i miei compagni, le mie compagne, i miei professori erano tutti al mio funerale. Molti di loro piangevano. Alla fine mi hanno fatto un applauso lunghissimo.

Manuel: Fino a che classe sei arrivata?

Marietta: Fino quasi alla fine cioè alla terza media. Ai miei tempi chi aveva la licenza media era come un laureato dei tempi tuoi. Io perché ero nobile ero istruita, ma quasi tutti gli altri ragazzi lavoravano o facevano solo la scuola elementare.

Manuel: Con tuo padre andavi in giro a fare passeggiate?

Marietta: Sì, ma poche volte, era sempre impegnato con la politica, era senatore. Ricordo che mi portava al teatro. Sai, era un padre affettuosissimo e premuroso, nel senso che la politica restava fuori dalla famiglia. Ogni Natale mi portava i regali più belli. Avevo un albero favoloso, ricco di colori e sorprese.

Manuel: E che volevi di più dalla vita?

Marietta: Tutto ancora, ma mi è stata tolta e forse è stato meglio così. Non rimpiango proprio nulla di ciò che avevo sulla terra. Dio mi ha fatto dei doni molto più belli ed eterni. Le sue idee non sono quelle degli uomini.

Manuel: Ma tu eri felice, orgogliosa di essere figlia di nobili o preferivi essere nata normale o magari povera?

Marietta: Per me era indifferente. Sono sempre stata modesta. Non ho mai avuto arie. Poi, del resto, non sarebbe stato merito mio, così come sono nata nobile, potevo benissimo nascere povera. Sono nata nobile ma non sono morta lo stesso? La ricchezza terrena non vale niente, è quella dell’anima che conta.

Manuel: Eravate ricchi?

Marietta: Assolutamente no! Ma che cosa ti sei messo in testa, che avevamo castelli giganteschi come quelli delle favole? Ai miei tempi c’erano un’infinità di problemi, tante malattie incurabili, addirittura il Regno d’Italia era stato proclamato da poco, c’erano tante rivalità tra gli uomini, tanti contrasti.

Manuel: Vedo che sei molto preparata in storia!

Marietta: Ma no, certe cose si sapevano per sentito dire. Noi abitavamo in una casa un po’ più grande delle altre a livello terra. Sai dove? In centro, al Corso Cavour, allora si chiamava così e non so se esiste ancora, le strade erano molto diverse da quelle di oggi. Io ricordo che avevo una stanzetta che sporgeva su un mercato e c’era sempre tanto traffico, tanta confusione con tutta la gente che andava a comprare. In realtà non c’era molta scelta nel mangiare, c’era frutta, pesce, uova, poca carne ma comunque era tutta roba genuina. C’era miseria in quel periodo.

Manuel: Come fai a dirmi che non eravate ricchi? Non ci credo.

Marietta: Ricchi per modo di dire, avevamo più dei poveri, proprietà terriere soprattutto, te l’ho già detto, c’era povertà, non poteva parlarsi di vera e propria ricchezza. E poi io ero piccola per interessarmi a queste cose. I soldi, la politica per me era come se non esistessero. Vivevo semplice con celestiale virtù e serena bellezza, proprio come ha fatto scrivere mio padre sulla mia tomba. A proposito di mio padre, sai, ha sofferto molto quando sono morta! Ero l’unica sua figlia, era particolarmente attaccato a me, mi voleva bene. Avevo anche un fratello, Ernesto, era un anno più piccolo di me. Pensa che è stato per due volte sindaco di Messina. Lui è morto a 49 anni nel 1905. Vedi questo signore sepolto al mio fianco? È mio padre, è morto 12 anni dopo di me, come vedi la morte non ha età. Guardalo bene, trovi che mi somiglia? Dicevano tutti che mi somigliava moltissimo. Lui il volto ce l’ha ancora sulla tomba, il mio si è rotto col terremoto del 1908. Ma cosa importa? Tanto tu mi vedi lo stesso.

Manuel: E tua madre? Tua madre dov’è sepolta? Come mai non è qui con te?

Marietta: Lei è sempre vicino a me. Qui al cimitero non so dov’è sepolta. Forse perché appartiene alla famiglia Stagno d’Alcontres sarà in qualche altro posto. Sai, c’è pure una mia cugina morta a 14 anni sepolta dove ci sono i bambini del mio secolo, il suo cognome era proprio Stagno d’Alcontres.

Manuel: Io ho fatto delle ricerche su di te e ho notato che nello schedario della tua famiglia risultano proprio tutti, tranne te. Come mai?

Marietta: Non lo so, è strano. Forse perché ho vissuto talmente poco e non sono stata né sposata e né in politica.

Manuel: Ai tuoi tempi si sposavano presto?

Marietta: Sì, almeno il più delle volte. C’erano molti matrimoni che venivano stabiliti dai genitori. Comunque mio padre e mia madre si amavano veramente.

Manuel: Che facevi nel tuo tempo libero?

Marietta: Un po’ di tutto. Disegnavo, mi piaceva molto. Dipingevo il sole, il mare, la natura, paesaggi. Mi piaceva andare a cavalcare, avevamo un cavallo piccolino, si chiamava Puffy. Leggevo libri d’avventura, libri d’amore, scrivevo poesie. A proposito. Ho letto quella poesia che mi hai dedicato. È bellissima, mi ha colpita fino a farmi scappare le lacrime. È insolita, irreale, strana proprio come noi due che siamo qui a parlare da tanto tempo. Per noi è tutto così naturale, per gli altri magari è solo follia, fantasia. Eppure noi due siamo reali. Perché non provi a scrivere un libro sulla storia di noi due?

Manuel: Mi prenderebbero per pazzo, non lo leggerebbero neanche. Ma tu eri romantica? Ti piaceva la musica?

Marietta: Sì, Manuel, ero romanticissima come te e amavo la musica che era molto diversa da quella rumorosa di oggi. Mi ha fatto piacere che tu ti sia comprato un disco con la musica dell’Ottocento, così ti ricordi di me. Ma sei ancora convinto di volerti fare una tomba vicino alla mia?

Manuel: Certo che lo sono, vorrei essere sepolto vicino a te, quando sarà.

Marietta: Ma tu sei completamente pazzo, ma come puoi pensare una assurdità simile?

Manuel: Perché? Mi è sempre piaciuta questa zona del cimitero, queste tombe antiche. Ma sicuramente non me lo permetterebbero. Qui possono starci solo le tombe del tuo secolo.

Marietta: E meno male, così almeno cancelli dalla tua mente una idea simile. Ascolta Manuel, anch’io amavo come te la vita terrena, ogni cosa, un fiore, un insetto, un bimbo, una stella, una coccinella. Chi meglio di me ti può capire? Perché ero uguale a te. So che tu ti domandi perché quel bambino ingenuo, tanto bellino, che poi cresce man mano, che tu vedi nelle tue fotografie, debba invecchiare e magari in punto di morte anche soffrire come ho sofferto io. Ma sappi Manuel, che se Dio toglie qualcosa, lo fa solo per dare di più, molto di più. Ti darà doni molto più belli, più grandi, più certi, eterni. Devi credere e avere fiducia in lui. Dinanzi a Dio si è sempre giovani, molto più della giovinezza terrena. Sulla terra prima o poi tutto sbiadisce. In cielo tutto rimane per sempre puro, intatto, incontaminato. Non ha nessuna importanza se metterai la tua tomba vicino alla mia, perché sono solo pietre e null’altro. Noi saremo vicini lo stesso nei giardini dei cieli, se solo tu lo vorrai, dipende solo da te. Sarò io stessa in punto di morte a prenderti dolcemente per mano e a farti contemplare la bellezza di ciò che è Dio e anche tu, così come ho fatto io, piangerai di gioia.

Manuel: Mi sto commuovendo, mi stanno quasi scappando le lacrime, sei più poetica di me. Posso prendere la tua mano?

Marietta: Certo che puoi.

Manuel: Allora tendi la tua mano verso la mia ed io farò la stessa cosa. Così arriverò a intersecare le mie dita con le tue dita in modo che possa stringerti forte la mano e sentirti più vicina.

Marietta: Va bene Manuel, ma non puoi sentire la mia struttura fisica perché i sogni non hanno corpo, stringeresti l’aria.

Manuel: Non m’importa. Afferra la mia mano adesso con la tua, le tue dita nelle mie, e stringiamo forte insieme.

Marietta: Ora che le nostre dita si stringono cosa stai provando Manuel?

Manuel: Forte, Marietta, troppo forte! Sto stringendo l’aria, non te, tu sei trasparente, sei un fantasma allora.

Marietta: Te l’avevo detto che non puoi sentirmi fisicamente.

Manuel: È emozionante lo stesso. È come un leggero brivido, una piccolissima scossa elettrica che non mi procura nessun fastidio, nessun dolore. E tu cosa provi?

Marietta: Le stesse cose che stai provando tu.

Manuel: Posso baciarti sulle labbra?

Marietta: Sì, se vuoi.

Manuel: Troppo forte, fantastico!

Marietta: Cosa hai sentito?

Manuel: Una strana sensazione. Come se sulle mie labbra, fosse caduta una gocciolina d’acqua fredda. Marietta dimmi la verità, mi trovi carino come ragazzo?

Marietta: Certo che lo sei.

Manuel: Se tu fossi viva e appartenessi al mondo reale, ti innamoreresti di me?

Marietta: Credo di sì.

Manuel: E mi sposeresti?

Marietta: Credo di sì.

Manuel: E vorresti figli da me?

Marietta: Non lo so, non ci ho mai pensato. Ma tu hai la ragazza?

Manuel: No!

Marietta: Perché?

Manuel: Non lo so, forse perché cerco una ragazza all’antica come te e non l’ho mai potuta trovare. Forse non esiste neanche. Senti, se portassi mia madre, mio padre, un amico qui, ti potrebbero vedere?

Marietta: No, solo tu puoi vedermi.

Manuel: E se provassi a raccontare a qualcuno l’esperienza che sto vivendo?

Marietta: Non verresti creduto, forse penserebbero che sei pazzo, un visionario.

Manuel: Cos’è la morte?

Marietta: Esiste solo quella fisica.

Manuel: Ma cos’è? Perché si muore?

Marietta: È come la nascita, solo che è al contrario. L’anima non muore mai, si trasforma soltanto cambiando dimensione ma noi restiamo sempre gli stessi.

Manuel: Ma tu quanti anni hai ora?

Marietta: Potrei averne 16 come potrei averne 1000. Non esiste il tempo nel mondo dello spirito. Non ho un’età.

Manuel: Chi è Dio? Com’è?

Marietta: È infinita luce, è infinito amore.

Manuel: Ma chi l’ha creato?

Marietta: Quando si ama veramente qualcuno, non ci si chiede mai il perché e da dove nasca l’amore, si ama e basta.

Manuel: E il diavolo esiste o è solo un’invenzione per metterci paura?

Marietta: Non è un mostro con le corna. È l’opposto di Dio, il contrario del bene.

Manuel: Potrei parlare con mia nonna che è morta quando io ero ancora piccolo?

Marietta: Tua nonna non è mai morta e ha lo stesso desiderio di parlare con te anche perché sa molte cose più di te.

Manuel: Ma allora perché non possiamo parlarci?

Marietta: Per lo stesso motivo per il quale un pesce non può stare fuori dell’acqua e un uomo non può vivere sott’acqua.

Manuel: Ma perché dovrei credere a ciò che non vedo?

Marietta: Molte cose nella vita esistono ma non si vedono. Pensa alle onde elettromagnetiche, alla forza del pensiero.

Manuel: Esiste il paradiso?

Marietta: È la luce di Dio.

Manuel: E l’inferno?

Marietta: È la mancanza di questa luce.

Manuel: Chi sono i santi?

Marietta: Anime più vicine alla luce.

Manuel: E i cattivi?

Marietta: Anime che non vedono la luce ma possono rivederla se si redimono.

Manuel: Puoi dirmi quando morirò?

Marietta: Non lo so ma anche se lo sapessi non te lo direi mai, sarebbe la fine, un conto alla rovescia.

Manuel: Cosa ti piace di più di me?

Marietta: La tua sensibilità disarmante.

Manuel: Quando ci sarà la fine del mondo?

Marietta: Non lo so ma anche se lo sapessi, non te lo direi.

Manuel: È peccato suicidarsi?

Marietta: Perché questa domanda? Mi fai paura. È uguale a uccidere.

Manuel: Qual’è il più grave peccato?

Marietta: Ce ne sono tanti, forse l’odio.

Manuel: Dove sono adesso i grandi poeti del passato che magari avevano le mie stesse inquietudini, le mie stesse paure?

Marietta: Sono tutti vivi, stanno sperimentando la luce, hanno un’ispirazione molto più profonda e superiore a quella che possedevano sulla terra.

 

Cari amici lettori, per ragioni di tempo e per non trasformare il romanzo in un esclusivo dialogo, ho narrato solo una minima parte delle conversazioni avute con Marietta. Il tempo in cui mi incontravo con lei, è durato assiduamente per una quindicina di giorni, dagli ultimi di gennaio sino a metà del mese successivo,nell’anno 1984. Il posto era sempre lo stesso, la parte più alta del cimitero. L’ora era sempre quella, dalle 9 del mattino sino a mezzogiorno.

Sostituivo praticamente la scuola col cimitero. Tutto questo ebbe fine, o stava per finire, quando Marietta, improvvisamente, decise di non apparirmi più lasciandomi per sempre ed io, in preda alla disperazione, cercavo di sapere da lei il motivo.

Riporto quest’ultimo dialogo proprio alla fine del racconto, considerandolo messaggio personale al lettore e vero significato di tutta la storia.
DIALOGO TRA MANUEL (IL VERO ME STESSO)

E MARIETTA

 

 

Manuel: Perché vuoi scomparire Marietta? Tu eri viva, esistevi davvero. Pure i fantasmi si allontanano da me.

Marietta: No Manuel, io non esisto più, non posso esistere, non posso vivere per colpa degli altri che non vogliono più farti sognare. Tu devi restare con i piedi per terra altrimenti verresti deriso da tutti, preso per pazzo. Devi convincerti che io sono il frutto della tua grande immaginazione, la proiezione del vero te stesso. Tu mi hai fatto rinascere dalla morte perché hai creduto con tutta la tua mente, con tutto il tuo cuore, alla forza di sognare che hai dentro di te. Io prima ti ero vicina, ti parlavo, ti capivo, ero reale perché tu ascoltavi la voce dei tuoi desideri, dei tuoi sogni. Ma adesso tu stai dubitando della tua immaginazione, non ascolti più il vero te stesso e mi stai facendo morire per sempre. Manuel perché non ascolti più la voce  del bambino che è in te?  Non senti  questo caldo agli occhi che vorrebbe essere pianto? Tu mi avevi creato, adesso perché vuoi distruggermi? Con me morirai anche tu, non ti ritroverai più, resterai solo, almeno io ti capivo perché ero lo specchio del vero te stesso, ero la tua libertà, la tua energia vitale, perché vuoi annientare tutto? Manuel non sono io che sto fuggendo da te ma sei tu che per sempre stai fuggendo da me. Ti prego resta te stesso, ascolta i tuoi sogni, non morire anche tu diventando uguale agli altri, tu sei diverso da loro. Quando si crede veramente ai sogni, niente diventa impossibile. Io ero morta e grazie a te sono rinata.

Manuel: Marietta, ma se per gli uomini è così importante sognare come mi stai dicendo tu, perché allora non ascoltano i loro sogni? perché se io provo a sognare mi emarginano?

Marietta: Tutto questo Manuel accade perché sognare è come essere liberi. Gli uomini sono nati liberi perché sono spiriti liberi, hanno avuto da Dio il dono della libertà e quindi hanno diritto di sognare ma, chissà perché, hanno paura della loro stessa libertà, non riescono ad essere se stessi e preferiscono chiudere le loro menti e così non sognano più. È per questo che nel mondo c’è odio, invidia, materialismo, c’è l’arroganza del potere, ci sono le guerre, perché è molto più facile comandare sulle menti chiuse che non credono più a niente e così si arriverà alla fine.

Manuel: Marietta, io sento che tu hai ragione. Io non voglio soffocare la mia mente, la mia libertà, la voglia di sognare, voglio restare me stesso ma come posso fare? Ormai vivo in un mondo chiuso che non sogna più. Se resterò me stesso, non mi capirà e non mi crederà nessuno. Cosa posso fare Marietta? Ti prego aiutami, cosa posso fare?

Marietta: Devi restare sempre te stesso Manuel. Vivi la tua libertà, dai ascolto ai tuoi sogni e non sarai mai solo. Saranno i tuoi stessi sogni a portarti lontano, a farti compagnia e poi ci sarò io con te perché sento che stai ricominciando a credere ed io non sto morendo più. Scrivi una storia, la storia di noi due, leggila a chiunque, bussa ad ogni porta. Non aver paura se ti prenderanno in giro perché ci sarò io a darti forza. Racconta di noi due al mondo intero, ai bambini, ai vecchi, non ha età la forza dell’immaginazione. Vedrai che qualcuno, in questo momento, sentendo la nostra storia, sta cominciando ad aprire la sua mente e a provare a volare finalmente, perché ci ha capiti, perché dentro è uguale a noi ed è bello poter essere capiti da qualcuno per quello che siamo realmente, è bello poter aiutare il nostro prossimo. Coraggio Manuel, dammi la mano e camminiamo insieme.

Manuel: Sì Marietta, camminiamo insieme.

 

VENT’ANNI DOPO

 

Cari lettori, dopo vent’anni l’altro giorno sono tornato in quel posto. Ho rivisto le tombe abbandonate dell’Ottocento ma non mi hanno suscitato nessuna emozione. Sono stato anche sulla tomba di Marietta ma mi è sembrata anch’essa come tutte le altre, fredda e muta, non aveva più nulla da comunicarmi. Era come se la storia di questo libro fosse stata vissuta da un’altra persona e non da me.

Sono tornato a casa con la morte nel cuore e più solo di prima. Mi rendevo conto che mai più avrei potuto rivedere Marietta perché una ragazza di 16 anni non avrebbe più nulla da dire ad un uomo di 40 ma soprattutto perché con l’età adulta, assieme alla giovinezza, avevo perduto anche la mia ingenuità.

 

LA TRAMA DELLA STORIA

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La narrazione è ambientata a Messina, nella parte più alta ed antica del cimitero, dove è tuttora sepolta la protagonista del racconto.

Manuel, un ragazzo diciannovenne messinese strano e solitario, rincorre ossessionatamene l’ombra di una ragazza vissuta nella stessa città per quasi diciassette anni nel secolo dell’Ottocento, figlia di nobili dell’epoca, Marietta Cianciolo.

Si lascia talmente coinvolgere da quest’incantesimo, da effettuare minuziose ricerche sull’identità e sulla vita passata di lei. Arriverà a rasentare la follia non riuscendo più a distinguere il confine che divide il reale dall’immaginario. Farà rinascere dalla morte la ragazza grazie alla forza dell’immaginazione e alla sua fervida fantasia, fino a instaurare con lei un rapporto di profonda amicizia fatta di confidenziali dialoghi di alto spessore umano e spirituale, colmi di semplicità e tenerezza.

Il romanzo racchiude citazioni sulla storia di Messina antica con  particolare riferimento alle origini del Cimitero Monumentale e alla genealogia di qualche famiglia nobile messinese dell’Ottocento.
BIBLIOGRAFIA DELL’AUTORE

 

 

Anima sepolta, poesie.

 

Apocalisse mentale, monologo in prosa.

 

Come sono dentro, raccolta di prose, poesie, pensieri, riflessioni.
INDICE

 

Presentazione  …………………………………………………………………..  p….. 3

 

Introduzione ……………………………………………………………………..  p….. 7

 

Com’ero. Il mio stato d’animo ………………………………………………  p… 11

Messina,inverno 1984 …………………………………………………………  p… 27

Dentro il Gran Camposanto ………………………………………………..  p… 35

Morte solitaria in un cimitero deserto ………………………………….  p… 43

Lungo le vie del cimitero …………………………………………………….  p… 47

Verso il Conventino ……………………………………………………………  p… 55

Storia della parte più alta ed antica del Cimitero di Messina …..  p… 61

Dinanzi e dietro la chiesa ……………………………………………………  p… 65

All’interno della chiesa ……………………………………………………….  p… 67

Tra le antiche tombe ………………………………………………………….  p… 73

Notizie storico-biografiche sulla famiglia Cianciolo …………………  p… 77

Caratteristiche nobiliari dei Cianciolo …………………………………..  p… 79

Descrizione della tomba di Marietta …………………………………….  p… 81

Illusioni sulla tomba di lei …………………………………………………..  p… 85

A te Marietta (1855-1872) …………………………………………………..  p… 87

L’immagine ……………………………………………………………………….  p… 89

Descrizione d’un ritratto funebre …………………………………………  p… 91

Apparizione d’una figura sognante ……………………………………….  p… 93

Il primo incontro ……………………………………………………………….  p… 97

Come la vedevo …………………………………………………………………  p… 99

Dialogo della semplicità ……………………………………………………..  p. 103

Dialogo tra Manuel (il vero me stesso) e Marietta ………………….  p. 119

La trama della storia ………………………………………………………….  p. 125

 

Bibliografia dell’autore ………………………………………………………  p. 127
“Colei che brevemente fu

e che mai in vita conobbi”

 

è dedicato a Marietta Cianciolo

anche se non saprò mai se le piacerà.

Ringrazio tutti coloro che mi hanno pazientemente aiutato

nelle ricerche su argomentazioni utili al racconto

in particolare tutti gli addetti al servizio e alla custodia

di biblioteche, uffici anagrafici, annali ed archivi storici.

 

Ringrazio mia madre

per non avermi preso per pazzo nello scrivere il racconto.

 

Ringrazio infine il mio genio e la mia follia

che mi hanno permesso di creare questo libro.

 

Claudio Cisco

 

 

Claudio Cisco nasce a Messina nel 1964. Rivela sin da piccolo una fervida vita interiore che si sviluppò non solo nel fervore dell’immaginazione e nell’intensità del sentimento, ma anche in uno slancio artistico pertinace e costante. Ricco di intuizioni e creatività, soverchiato dall’impeto della sua fantasia e da una straordinaria capacità nel creare immagini, precocissimo nella sua inclinazione all’arte in genere, riesce ad estrinsecare il suo innato talento nello scrivere, esprimendo così il segreto palpito e il ritmo stesso della sua anima. Dotato di sensibilità profondissima e acuta, fuori dalla norma, di una freschezza vibrante di sentimento e di una vivida intelligenza intuitiva trasferisce, con grazia singolare, le sue interiori vibrazioni artistiche, nei ritmi della sua scrittura. Ottiene effetti potentissimi di rara e grandissima bellezza con la sola collocazione delle parole perfettamente associate alle immagini, padrone di uno stile raffinato e originalissimo, riuscendo così ad armonizzare tutte le proprie qualità artistiche. Focalizzando sempre più la sua genialità creativa e rinnovandosi continuamente su schemi da lui stesso creati, inventa uno stile tutto suo, ben definito, non paragonabile a nessun altro, frantumando così gli schemi cosiddetti logici della scrittura tradizionale. Fa nascere un’armonia di lettura quasi ritmica per via di creazioni fantasiose assolutamente nuove nella storia degli scrittori contemporanei, rappresentando le cose non solo per il gusto della semplice descrizione ma anche e soprattutto per l’anima e il sentimento che le pervade facendole apparire così vicine e familiari e insieme remote e sfumate. Ne vien fuori una musica di parole e immagini, sciolte da ogni saggezza logica che diventano forma dell’essere, incarnazione della profonda realtà dell’anima, dell’assoluto.

Con immediata freschezza, l’autore sa cogliere l’essenza intima e nascosta delle cose della natura e delle sue creature. Vede luci improvvise e parziali, immagini fantastiche e surreali. Tende a rendere nella sua scrittura l’incanto delle sue visioni e del suo quasi infantile stupore.

Mette in evidenza gli aspetti misteriosi dell’universo, attraverso moti che salgono dall’anima, simboli e immagini fugacissime, allucinanti e folgoranti con le quali osserva e trasfigura le forme più recondite della realtà, muovendosi con esse entro l’alone del mistero. È un’insurrezione straordinariamente creativa e istintiva, animata dalla volontà di essere, di esistere, di crearsi un suo spazio. È un mosaico, il suo, carico di immagini suggestive e fantastiche, intrise di sensibilità, testimonianza dell’eterno e quasi inspiegabile contrasto tra le forze misteriose che ci governano e le luci chiare della speranza e dell’amore che si alternano tra loro, creando l’immortale contrasto tra il bene e il male, tra il positivo e il negativo. L’autore rivela con impressionante intuito artistico questo contrasto, rappresentandolo nei suoi versi con alternanza di situazioni fantastiche e quasi inverosimili a immagini cupe e invisibili.

Nella rovina di ogni altro valore conoscitivo, nel moderno senso del reale inteso come fugacità, mutevolezza, inconsistenza, nell’opprimente senso del mistero e dell’inconscio, la sua originalissima scrittura appare come sola via di salvezza, come solo valore in un mondo senza valori, come il solo modo di intendere e svelare la realtà. I suoi versi, abbattendosi tra creature immaginarie e inconscio, hanno una funzione di illuminazione e immediata rivelazione. Non sono né conoscenza e né intuizione, ma immedesimazione istantanea col tutto, fuori da ogni chiarificazione definitiva. È il suo, un atto di vita (forse l’unico possibile), di immediata partecipazione al ritmo frenetico della realtà. I suoi versi hanno altresì il potere di catturare del tutto chiunque li legga, dando luce ai fondi oscuri del suo essere attraverso una descrizione analitica di fatti e situazioni psicologiche che investono rapporti e nessi del tutto inusitati. Il suo modo di scrivere, in conclusione, è baleno di luce e di fantasia, trionfo di immagini nell’oscurità di un mondo spento dalla praticità e dal mostruoso materialismo di tutti i giorni. La vita vuol essere, per potersi realizzare, arte e in Claudio Cisco tutto questo si realizza. Arte e vita si confondono, la fantasia eclissa la realtà grazie alla sua creatività e partecipazione emotiva. Questo libro diventa quindi purissimo atto vitale, allargando i suoi limiti sino ai confini della vita.

“LA MIA ANIMA E’ NUDA” (Claudio Cisco)

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Claudio Cisco
 LA MIA ANIMA È NUDA
 

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PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

 

 

copyright © 2006 by Claudio Cisco


INTRODUZIONE

 
È la seconda volta che mi è stato gentilmente chiesto dall’autore stesso, di offrire una piccola parte di mio contributo ad una sua opera. Lo faccio sempre con gioia e con immenso piacere essendo un convinto suo estimatore, profondamente certo delle sue qualità artistiche e prima ancora umane.

Anche in questa raccolta di liriche, le vicende psicologiche dell’autore divengono esse stesse motivo di poesia, del resto non c’è opera che insieme con il poeta non rispecchi anche l’uomo con i suoi timori, i suoi dolori, le sue speranze.

Cisco rivela chiaramente le ragioni psicologiche del suo isolamento dalla vita pratica e il suo amore per la solitudine. Esprime con vigore e precisione i suoi stati d’animo ed effonde con un rapimento quasi mistico il suo travaglio psichico assieme alla pienezza dei suoi sentimenti in perenne contrasto tra loro; con una fiamma viva e sempre ardente di curiosità tende a carpire il mistero che avvolge l’universo. Ne vengono fuori pagine intrise di tristezza ma anche di profonda meditazione.

Cisco esprime ancora una volta il suo animo agitato e tormentato, fedele specchio d’un uomo prima e d’un artista dopo, perennemente inquieto. Continua nei labirinti della sua mente l’incessante lotta tra umano e divino, tra sacro e profano, tra ciò che gli altri considerano male e il bene, sempre alla ricerca di un porto sicuro, di una certezza, di una pace.

Il dominio, Cisco, lo ottiene solo nella sua poesia, in cui ogni parola, ogni immagine si piega docile ad esprimere i moti più segreti del suo animo, elargendo nei suoi versi bellezza e armonia. Diffonde nella natura, come anche nelle sue liriche, le sue inquietudini, i suoi sogni, le sue delusioni e l’orizzonte naturale diviene il riflesso di quello interiore.

Il tema forse più profondo trattato in quest’opera, è rappresentato dal doloroso distacco tra la giovinezza e l’età matura. Nell’anima tutta raccolta in se stessa, si fa viva e struggente la memoria dell’infanzia con le sue dolci fantasie sbiadite e perdute.

Ma pur nell’accento doloroso della perdita, essa rimane sempre nel ricordo, un mito sereno chiuso in una luce limpida.

È ancora la fragilità del tempo che scorre e dell’uomo che perisce, rivelata dall’autore nelle sue liriche, con grande maestria artistica e insieme struggente nostalgia.

E poi ancora la contemplazione della natura bella ma ingannevole, intesa come tremenda e vana fatica, incomprensibile agli esseri umani, che tende a sfociare nella morte. In questa intensità di vita così esclusivamente soggettiva, la natura, gli uomini e le cose tutte del mondo esterno, sono assunte entro lo stato d’animo dell’autore e rappresentano il battito che il suo cuore di volta in volta conferisce loro.

Le cose si umanizzano e cantano, piangono, sospirano in un’intima corrispondenza tra il poeta e la natura.

Tutto sembra malinconia di cose perdute e di vane promesse, quasi un sogno inappagato, una preghiera appena sussurrata senza speranza e gli esseri viventi sono creature che corrono verso la morte.

In conclusione, grazie alla lettura del suo quarto libro, ho potuto capire come Cisco sia impossibilitato di essere e di realizzarsi in un mondo che nega tanto più crudelmente la felicità, quanto maggiore è la nostra virtù.

 

Giovanni Pierantoni

LA MIA ANIMA È NUDA

 
La mia anima è nuda

anarchico il mio istinto

folle la mia mente

immorale la mia libertà.

La mia anima è nuda

ama i bambini

sta al fianco di barboni, disadattati, emarginati

adora gli ultimi della classe sociale.

La mia anima è nuda

non sa vivere in società

non scende a compromessi e non concepisce le regole

non lavora e non produce.

La mia anima è nuda

è troppo grande per essere prigioniera in un corpo di carne

non può esser limitata dal tempo

è uno spirito libero che anela alla libertà assoluta.

La mia anima è nuda

posta al centro d’una corda tirata ai lati da lussuria e innocenza

come un verme striscia e bacia i piedi del demonio

poi di colpo s’alza in volo e abbraccia Dio

sempre in bilico tra inferno e paradiso.

La mia anima è nuda

soltanto nell’arte, di notte quando tutti dormono,

esce manifestando la sua diversità

se venisse scoperta verrebbe fatta fuori e forse anche uccisa,

bisogna lasciare dormire tranquillamente la gente,

guai a chi provasse a risvegliarli!

quando si sta troppo al buio, si ha paura della luce.

La mia anima è nuda

immortale e ribelle

aliena venuta da chissà quale mondo

destinata a perdersi e soffrire

nel crudele gioco della vita e della morte.

La mia anima è nuda

scevra da qualunque vanità

spogliata nella sua infinita miseria

non si lascia etichettare in nessun modo

non è né maschio né femmina, né schiava né regina.

La mia anima è nuda

conosce la sensibilità del male

è attratta dal fascino del proibito

è inquietante ma sincera.

La mia anima è nuda

è ancora bambina quando sogna

terribilmente vecchia quando insegue la logica

morta e sepolta quando si lascia sedurre da religioni e ricchezze.

La mia anima è nuda

condannata dalla sua stessa sensibilità

ad un isolamento senza uscita,

non chiede più comprensione ormai

sa di averla data ma di non poterla ricevere.

La mia anima è nuda

dannata

salvata

ma dannata ancora.

Anime perverse, entrate in sintonia con me!

sono qui, se volete potete trovarmi

non ho maschere e non mi nascondo:

la mia anima è nuda.
LA MIA MENTE

 

Silenzi e vuoti intorno a me

quiete assoluta nella mia stanza

sguardo assente, occhi chiusi

la mia mente mi porta lontano fuori da qui

mi trascina via con sé e nessuno se ne accorge,

prende il largo sulle acque

attraversa un fiume tranquillo

che cancella i ricordi

e li fa scivolare via.

La mia mente

è volo di idee

ragnatele di ragionamenti

archivio di esperienze rimosse

cassetti colmi di dubbi incessanti.

La mia mente

è follia pura

immaturità e saggezza insieme

è un gigantesco pallone

che vaga rimbalzando continuamente

da un soffice sogno all’altro.

La mia mente

è finto silenzio

fantasie strane

vertigini e vortici di pensieri

spinta per vivere.

Crea una tempesta

non dorme la notte

incubi che si accavallano

sogni che nascono e rimangono sospesi

paure e solitudini senza fine.

La mia mente

è invasa di ricordi che si susseguono

notizie divorate

date, sentenze, nomi, schede ormai ingiallite

profumi di opere buone

domande senza risposte

amori cancellati e poi riscritti

sì che diventano no.

La mia mente

è un insieme di cose da dimenticare

una cantina di occasioni perdute

di progetti mai portati a termine

di ricordi nostalgici.

La mia mente

silenziosa corre, vola, sfugge,

anela, brama di sapere.

Va via col vento, più su delle nuvole

sopra gli oceani

sorvola spazi infiniti

raggiunge nuovi orizzonti.

La mia mente

mi convince

ha sempre la meglio

detta le sue leggi

ed io non posso sfuggirle,

la seguirò perché lei vuole così.

La mia mente

mi fa impazzire

mi fa venir voglia di scoppiare

mi lascia i segni di chi ha vissuto un’eternità.

Uccidimi il cuore!

la mia mente mi resterà ancora intatta.

Legami con una catena fortissima!

lei mi slegherà,

forse neanche la morte fisica

potrà riuscire a formarla.

Ti prego mente mia

portami con te lontanissimo

nei grandi campi di neve dove il sole non c’è

nei deserti sabbiosi senza confini

nelle praterie immense

nei mari in tempesta

nelle cime vertiginosamente alte

nelle strade vuote senza fine

che portano al nirvana e all’estasi.

Portami o mente mia

attraverso paesaggi sfocati e laghi annebbiati,

le mie vene saranno fiumi tra le rocce

le mie mani pallidi monti nella notte

il mio sangue torrente rosso più del fuoco.

Solo con te sulla scia delle ninfe

tra cascate argentate

i miei pensieri frustati dal vento

scatenati e prendi, prendi tutto di me!
VORREI

 

Vorrei vagare nell’universo

e cercarti ovunque,

nelle intrecciate tele di un ragno

nel fruscio delle foglie morte

nel dondolare dei rami stecchiti

nel profumo d’un incensiere

sfogliando la Bibbia

dinanzi al portone d’un antico monastero.

Vorrei essere portato via da te nella tua carrozza

lontano dalla prigione d’un grattacielo

lungo le strade dell’inverno

ed osservare riflessa nel lago argentato

la mia immagine vecchia e deforme

trasformarsi nella tua pelle giovane e bianca

e contare poi una per una

le perle della tua corona.

Vorrei capire chi sono

mostrandoti fotografie sbiadite e diari segreti,

mostrandoti la scia luminosa dei ricordi

di quello che ero ieri,

l’anima immortale che vive nei miei versi adesso,

la statua, la lapide e la polvere

di ciò che rimarrà dei miei sogni domani.

Vento impetuoso della fuggevole immaginazione mia

tu spalanchi con forza la porta di questa mia tacita realtà

e nelle annebbiate stanze del tuo nido

io mi sto sempre più addentrando.

Ed ora sento di poterti raggiungere.

Vorrei avvicinarmi ma non so chi sei

vorrei chiamarti ma non so il tuo nome

vorrei seguirti ma tu ti stai sciogliendo lentamente

in aria.

Eppure io ti inseguo da sempre

nei labirinti della mia mente,

cercandoti affannosamente

in ogni piccolo spazio

della mia camera vuota e solitaria.

E nelle lacrime della solitudine mia

che percorron lente il mio viso pulito,

vedo i miei sogni evanescenti

morire uno dopo l’altro

ed un bimbo,

quel bimbo che vive in ognuno di noi,

li porta con sé invecchiati

fino ad estinguersi

nel riposante approdo d’un obitorio.
NICO

 

Nico!

Ti ricordo ancora

avevi dodici anni, la mia stessa età

solo qualche giorno in meno.

Nico!

Sei nella memoria coi tuoi occhi scuri

una bocca grande ma con pochi denti

ti facevo il verso

non te la prendevi.

Nico!

Eri sempre con le brache corte

e le gambe viola

per il grande freddo.

Nico!

Ma com’eri buffo

con quel cappellino con il paraorecchie

una grossa sciarpa fatta da tua mamma

come ci tenevi.

Nico!

Il compito in classe

lo copiavi sempre da me

eri furbo

non so come facevi.

Nico!

Insieme sulle piante

a buttar giù palle di neve

alle barbagianne, le ragazzine con gli occhiali

quelle proprio racchie.

Nico!

Non ti ricordi le mele

rubate insieme e mangiate di nascosto

in quel mercato rionale?

E le domeniche d’agosto?

correvamo per le strade deserte

c’eravamo solo noi

chissà cosa volevamo dalla nostra vita!

Nico!

Eri il mio migliore amico

un giorno mi dicesti:

“Se fossi nato femmina ti amerei”.

Quel giorno al doposcuola

ci presero un po’ in giro

avevano scoperto

i nostri giochi strani.

Non mi vergognavo di volerti bene, di prenderti per mano,

di regalarti il mio affetto

quello che riuscivo a darti,

quello che potevo darti.

Nico!

Ma tu adesso cosa fai?

chissà se ti sei sposato, se hai dei figli

se pensi ancora a noi.

Com’era bello uscire da scuola!

e col sole o con la neve

tornare a casa

insieme.

Nico!
MADAME CLELIA

 

Un’emozione forte

si fa strada nei miei pensieri,

lenta scende come un’ombra

nella mia realtà ormai stanca

e tra la fantasia e l’età

mi trascina via con sé

in un tempo ormai lontano.

Mi rivedo di colpo lì

a spiarti dietro la finestra

di quella tua tenebrosa casa antica.

Sui miei undici anni appena compiuti

cadeva già il primo velo di follia,

e che sussulti, che tremiti segreti

in quelle mie inquiete notti di fanciullo

quando impaurito e rannicchiato

mi nascondevo sotto le coperte,

la mia prima masturbazione

la conobbi proprio allora e fu per te.

Madame Clelia!

Eri grande, troppo grande

forse vecchia per i miei occhi e per il mio corpo.

Avevi perso il marito

ti avevano abbandonato i figli

io come un giocattolo, un barboncino

ero tutto quello che ti rimaneva

nella tua vita mai vissuta

sempre attesa, mai avverata.

Ancor adesso

a distanza di tanti anni

non so cosa volessi tu da me

né cosa avrei potuto darti io.

Ma ti giuro Madame Clelia,

tu sei stata per me una regina

ti vedevo danzare nei miei sogni di bambino,

mi chiedo come mai così bella dentro

nessuno, all’infuori di me,

ti aveva vista mai.
PAESE NATÌO DI MIA MADRE

 

Al tuo paese torni

con me

ogni tanto,

ma sei triste

pensierosa

non parli.

La tua fontana rivedi

i vicoli

la piazza

che a miglior tempo

ti furono amici.

Anche la tua casa

giace silente e vuota

negletti i fiori

accanto ai muri.

Guardi fissa la chiesa

e odi la voce

di chi la preghiera

t’insegnò a ripetere.

Trovi tutti i ricordi

segnati da croci

cerchi ma non trovi

la speme d’un dì.
IN SIMBIOSI CON L’UNIVERSO

 

È solo mio questo improvviso aprirmi

e rivedere in un attimo tutta la mia vita

e poi simultaneamente

allargare le braccia all’universo che mi circonda

e respirare a pieni polmoni

come volessi trasportarlo in me

per sentirmi parte di esso.

E poi ancora rivedere con gli occhi della memoria

lontanissimo come da un cannocchiale rovesciato

me stesso bambino

e paragonarlo alla luna

distante anch’essa mille anni luce da me.

E continuare a rivivere nei ricordi

la spensieratezza della giovinezza

e nello stesso istante

dirigere lo sguardo verso l’azzurro del cielo

ammirare spazi infiniti

nuvole bianchissime come zucchero filato.

Ridiscendere poi negli anfratti della mia memoria

e riscoprire la ragazza che ho baciato e amato

per la prima volta,

e confrontare la luce limpida dei suoi occhi

con quella delle stelle

o semplicemente della stella cometa.

Ricordare infine i dolci versi

scritti in tenerissima età

nella mia prima poesia,

immaginando di trovarmi

tra fiorellini di campo di vario colore,

solleticati dolcemente da un leggero venticello,

mentre uccellini nel nido assieme alla loro madre

e tanti piccoli animaletti festanti

tutti insieme

cantano la loro canzone alla primavera.

Capisco proprio in questi dolci momenti

di non essere solo

malgrado il tempo che passa

malgrado non abbia una compagna.

Intorno a me

vedo tutto un mondo magico

che pullula d’amore.

C’è tanta musica nell’aria che respiro

ed ora finalmente anch’io posso sentirla

e lasciarla entrare nel mio cuore.

Sono in simbiosi con l’universo.
SOLITUDINE UNIVERSALE

 

Uno spaventoso silenzio

avvolge tutto l’universo,

gli uomini come marionette di pezza

si susseguono nel tempo gli uni agli altri

e non nascono che per morire definitivamente.

Quanta gente nel corso dei secoli

mi ha soltanto preceduto!

uomini in carne e ossa proprio come me

col mio stesso sangue

con le mie stesse paure, le mie stesse speranze.

Hanno vissuto in tempi diversi

e per età differenti

ma di loro non è rimasto più nulla!

Dov’è l’uomo delle caverne?

e gli antichi Egiziani con le loro piramidi?

e i gloriosi Romani? e i pensatori Greci?

imperatori e papi, uomini comuni ed eroi

tutti scomparsi

nell’inesorabile scorrere del tempo.

Vorrei uccidermi subito

al solo pensiero che anch’io farò la stessa fine,

è strano come gli uomini

continuino a vivere con impegno

pur sapendo che dovranno morire,

anche se vivessero per cento anni

sarebbe sempre un soffio di fiato

rispetto all’eternità.

Ma poi mi consolo tra me

pensando che la solitudine non è solo mia

ma è presente in ogni angolo dello sconfinato universo

e non esiste gioia più grande

del sentirsi parte di questa immensità

pur consapevole della propria piccolezza

e piangere la propria fragilità

in un pianto accorato e senza speranza.

Così mi nasce dentro un’emozione fortissima

che, anche se nata dalla disperazione

è pur sempre un’emozione

e subito dopo rido, rido e ancora rido.

Ormai più nulla ha valore per me.

Scopro la dolce ebbrezza del non senso,

non m’importa della seduzione della fede

né del ragionamento della scienza.

Sono totalmente felice

e la mia gioia scaturisce dalla mia solitudine

che ora riesco a proiettare nel cosmo

e la solitudine dell’universo

è la mia stessa solitudine

e mi dà conforto

mi rende grande.
TRISTEZZA

 

Tristezza di cose perdute

di voci, di grida, d’amore

è struggente la pena che sento

come una lama mi trafigge il cuore.

Addio nidiata di bimbi!

è tanto quel che mi rimane di voi

siete riusciti a far sparire il dolore

per sempre compagno di vita.

Sorridevo felice all’innocenza

di nascosto, nel silenzio, tra le ombre

in segreto e in perfetta armonia

entravate uno dopo l’altro in me.

M’illudo di avervi vicino

vedo i vostri corpi e li tocco, li sento

immagino che siate con me

nel pensiero più dolce ch’esista.

Ripiomba di colpo ogni cosa

in grembo all’eterno destino

i vostri visi risplendono come dolci memorie

e poi muoiono con un tremulo brillio.
SENSAZIONI

 

È tutta avvolta nel mistero e nella meraviglia

questa vita mia,

con genuino e infantile stupore,

della natura osservo ogni manifestazione

fino ad esserne rapito.

Con sensibilissima attenzione nel silenzio ascolto

le voci, i suoni

anche i più tenui,

delle piccole cose intorno a me.

Affascinato e curioso

percepisco la suggestione, la religiosità, il mistero

nascosti in esse.

Ai miei occhi non appaiono

sempre traducibili e afferrabili

ma sciogliendosi in musica, in sospiro

mi riempiono ugualmente l’animo d’immenso.
INFANZIA LONTANA

 

Storia d’una infanzia lontana

ricognizione di un mondo

pietrificato nei ricordi.

È il canto della memoria

che si eleva

è profondo, sentito, cercato.

In esso

si rincorrono

gli attimi che hanno lasciato una traccia.

Rivivono anch’essi

insieme alle cose, alle persone familiari

ai sogni di più remote stagioni.

La memoria mi appare così

come immagine sovrapposta al presente

e i suoi impulsi,

ritornando dal passato,

s’intrecciano sinfonicamente,

trovano una finale armonia.

 
SULL’ORLO DELL’ABISSO

 

Dimora in me

un continuo e sempre vivo bisogno d’innocenza

come memoria limpida, essenziale

non coperta da incrostazioni.

Tornano nella mia mente

lontane primavere, gigli appassiti

come visioni taciturne e distanti

e tra echi sepolti

in un urlo senza voce

cadendo vittima del segreto logorio della vita,

subisco inerme la vecchiaia

come qualcosa di ineluttabile

stagione ultima, cupa e persino squallida

in cui sopravvive solo la memoria.

Non è tanto l’immagine della decadenza fisica

dell’inarrestabile declino che mi colpisce,

quanto la fugacità, la brevità del tempo

lo spazio attraversato in un lampo da ogni cosa,

anche le immensità celesti

dove ho cercato quasi un punto focale

della mia esistenza.

Oggi sono immerso nella follia più lucida,

il mio mondo è l’irrazionale

il mio pensiero si muove sempre sull’orlo dell’abisso.

Non c’è più luce, non c’è chiarezza

nel mondo informe, tumultuoso del mio vissuto.

Mi sgorga dentro un’impressione d’inerzia, di passività

che traspare dalla contemplazione della natura,

ha il gusto del tempo e delle sue rovine

perché quest’ultimo, pur nella disperazione e nella malinconia,

è il solo che mia dia una qualche trepidazione

un’incertezza, una sorpresa.

 
IL MIO IO COSMICO

 

Vedo vivere e sfiorire intorno a me

inesorabilmente

le persone, le cose, le stagioni

preda d’un sentimento panico dell’universo.

Trovo conforto abbandonandomi nella natura

per dimenticare in essa la mia forma umana

accogliendo nel sangue

il brivido solare d’una vita pura.

Il mio io cosmico pone la propria oggettività

per poi tornare a se stesso

nel perpetuo flusso della vita.

Mi fondo nella natura

contemplando il momento in cui l’amore

sarà libero fuori dal corpo

per farsi cielo.

Sublimo l’anima con i sensi

ma non interrompo il contatto fisico col mondo.

Forse spero di trovare in fondo alla strada percorsa

il silenzio e la solitudine dell’universo

anche quando silenzio e solitudine

sembrano chiudermi e annientarmi.
SFACELO

 

Gioco artificiale e platonico di specchi

sempre mutevoli

con tante facce e tante luci,

non trovo il filo interiore

quello vero e profondo,

cado così nel gioco delle invenzioni

delle contraddizioni.

Una totalità non trovata

che rivela disagio, sofferenza.

Cerco rifugio altrove

senza sapere dove

ma ciò che mi rimane di questa umana fatica

è la coscienza di una prigionia

e mi sento rinchiuso nel cerchio delle mie abitudini

che si avvicendano in modo sterile.

Sogno impossibili evasioni attraversato da sussulti e vertigini

invano lotto per non essere travolto dal tempo

ma l’amore mi appare perduto

tra la cenere dell’esistenza.

Archivio la memoria

come un mondo ormai passato per sempre

fatto di resti sospetti,

tracce che tendono a scomparire nel tempo

come carte antiche e indecifrabili

vere e proprie reliquie.

Sopra tutto questo sfacelo

aleggia sovrano il sentimento del tempo

che sfugge, che rovina, che travolge.

Non mi rimane

che una ragione stanca, ferita

al limite della resistenza

ma non vinta

che cerca in fondo alla dolcezza,

nella disperazione,

la speranza d’una morte amica.
LA LUCE DEL COSMO

 

Come per magia

il divino traluce

o affiora nei margini del mistero sovrasensibile

e la mia anima s’insinua

tra sensazioni terrene e misteri dell’essere,

nelle cose che l’occhio può scoprire mutate

in una luce e un suono

insospettato, nuovo, più profondo.

Sento nascere in me

il bisogno di illuminare con la luce del cosmo

le cose infinitamente piccole.

La mia anima così si fa largo

e nello spazio che mi creo

c’è il senso del tempo, del moto, del divenire,

e insieme del mistero

che avvolge il mondo delle mie sensazioni.

Entro in contatto

con tutto ciò che ignoro, intravedo, avverto

e soltanto in quell’istante,

sia pure con animo turbato,

riesco a capirmi.
PRESENZA VIVA

 

Momenti magici, favolosi

della mia infanzia,

ricordi evocati

da attimi di malinconia,

visioni incantate

della mia terra natìa.

Naufrago dolcemente

in un’infanzia che è ormai

il mito di se stessa,

e del dolore che l’ha portata via.

Pur tuttavia è suono, movimento

vita che trascorre.

Non la confronto con altri silenzi

con gli arcani mondi dell’immaginato

dello sperato, d’una irraggiungibile felicità.

Diventa invece voce intima del ricordo

presenza viva di qualcosa che passa

come echi, rintocchi.

Immersa nel tempo fluido

la natura come per magia

penetra nel tessuto della mia anima

e si fa poesia

ne scioglie i nodi, ne ispira i versi

è pianto che rasserena.
L’INFINITO

(liberamente tratta dalla lirica omonima di Giacomo Leopardi)

 

Ti ho sempre amato, colle

solitario come me.

Ti ho sempre amata, siepe

che mi fai aprire l’anima

verso l’orizzonte,

me lo nascondi

ma me lo fai amare.

Ho sempre amato questo posto

il suo sovrumano silenzio

la sua profondissima quiete,

e il tenue soffio del vento tra gli alberi

e la dolcezza di queste piante che dormono.

E mentre sono seduto e guardo lontano

mi tornano in mente le stagioni fuggite

l’ora presente

l’eternità,

ed è dolcissimo

perdersi nell’immensità della natura.
IL PASSERO SOLITARIO

(liberamente tratta dalla lirica omonima di Giacomo Leopardi)

 

Ti vedo in cima a quella antica torre

solo,

proprio come me!

Tu canti finché non muore il giorno

mentre la primavera brilla nell’aria,

esulta per i campi

festeggiata da mille uccellini

che fan mille giri nel cielo.

Ma tu passero solitario non ti curi di loro

resti indifferente a quella festa

non la cerchi, non provi a volare

consumi così nella solitudine

la parte più bella della tua vita.

Quanto è simile il mio modo di vivere al tuo!

non c’è spensieratezza in me

gioie e divertimenti io li evito

mi sento estraneo e quasi fuggo da loro

e il dramma è che non so spiegare a me stesso

nemmeno il perché.

Chiuso nella mia stanza

passo le mie giornate vuote e monotone

in silenzio, in solitudine.

Eppure questo giorno che ormai volge alla sera

è festeggiato da tutti in questo paese,

si odono nell’aria suoni di festa vicini e lontani

i giovani sono allegri

indossano i loro abiti migliori

si divertono

ed è persino bello guardarli.

Ma io,

in quest’angolo del paese vicino alla campagna,

io resto da solo come sempre,

ogni divertimento

lo rinvio in altri tempi

non so a quando!

guardo il sole che si dilegua dietro i monti

e sembra ricordarmi

che anche la mia giovinezza sta morendo.

Tu, passero solitario

alla fine dei tuoi giorni

non potrai pentirti d’aver vissuto così.

È la tua natura che ha deciso questo.

Ma io,

se non riuscirò a evitare la detestata vecchiaia

e tutto sarà noia più di adesso

cosa penserò della mia giovinezza sprecata

e non goduta?

forse piangerò,

guarderò indietro

ma sarà ormai troppo tardi.
IL SABATO DEL VILLAGGIO

(liberamente tratta dalla lirica omonima di Giacomo Leopardi)

 

La ragazzina spunta dalla campagna

al tramontar del sole

con la dolcezza, con la malizia

d’una età che non dà pensieri.

Ha un fascio d’erba in mano

un mazzo di rose e di viole

domani è festa, deve farsi bella.

La vecchietta con le sue amiche

seduta sull’uscio di casa

è intenta a filare

e con una lacrima agli occhi

ripensa a quando anch’ella era ragazza

e spensierata e felice

era circondata da tante compagne.

L’aria si fa bruna

le ombre scendono dai colli e dai tetti

una luna bianchissima splende nel cielo.

Una tromba suona annunciando la festa

i bambini giocano felici nella piazzetta

il contadino torna a casa fischiettando.

Poi, quando le luci si spengono

e tutto tace,

si ode soltanto il rumore d’un martello

e di una sega,

è il falegname che ha fretta di terminare il suo lavoro

prima dell’alba.

Questo è il più bel giorno della settimana

pieno di gioia, di speranza

domani tutto ritornerà normale, triste, monotono

e ciascuno riprenderà il suo lavoro.

Ragazzo mio!

la tua splendida ma fuggitiva età

è proprio come questo giorno

chiara, serena

che prepara la festa della tua vita.

Ragazzo mio!

non mi sento di dirti altro!

Ma ti prego non rammaricarti

se la tua festa tarda a venire.

 

 
MEMENTO

(liberamente tratta dalla lirica omonima di Igino Ugo Tarchetti)

 

Quando bacio le tue labbra profumate

cara e dolce fanciulla

non posso dimenticare

che un teschio bianco vi è nascosto sotto.

Quando stringo a me il tuo corpo sensuale

cara e dolce fanciulla

non posso proprio dimenticare

che hai sotto uno scheletro nascosto.

Quando faccio l’amore con te

cara e dolce fanciulla

mi è impossibile dimenticare

che sotto la tua pelle

vi è un ammasso di sangue, vene e organi schifosi.

E assorto in questa orrenda visione

dovunque ti tocchi, ti baci o posi le mie mani

sento sporgere le ossa fredde d’un morto.
L’ALBA DELL’UOMO

 

Da un chiarore lontano

spunta l’alba

repentinamente

e colora di luce il nuovo mondo.

Intorno,

piante stecchite

animali selvatici

grotte e caverne buie.

Si svegliano anche gruppi di scimmie

sono nude come vermi della terra,

schiamazzano

litigano

si riuniscono.

Qualcosa sembra dire loro:

“Uniamoci

e combattiamo insieme”,

una battaglia che durerà nei secoli

sino alla fine dell’universo

se fine ci sarà.
MIA EVA

 

Mia Eva!

sei tu la prima donna

l’origine delle mie perversioni

il pretesto per la mia follia

la madre dell’animale che è in me,

hai creato il mio istinto che ormai è morboso

il mio desiderio che è già sporcato.

Nel paradiso terrestre, trascinato indietro di mille secoli

io ti osservo nuda, allucinante visione,

misteriosa e invitante.

Dammi la mela ti prego, che aspetti?

voglio mangiarla!

è eccitante peccare

se tu mi sei vicina.

Dimmi dov’è il serpente, l’hai calpestato o no?

Voglio essergli amico e non mi farò esorcizzare.

Non mi importa di rimanere dannato per l’eternità

di lavorare, sudare e morire

di bruciare nelle fiamme dell’inferno,

l’importante è averti accanto.

Sei tu la causa del mio male.

Dal giorno che mangiasti quella mela

ogni uomo è sempre guidato

dalla follia d’una donna.
LA RIGENERAZIONE

 

Albero solitario

che mi aspetti in un campo di grano,

io ti vado incontro

e ai tuoi rami

mi appendo.

Ora sono appeso ai tuoi rami

e dondolo felice.

Tu ed io siamo un solo essere

una sola forma.
IL MIO FUNERALE

 

Lento veniva trasportato

un corpo straccio

dentro quella bara

avara di ghirlande,

quel corpo era il mio

sì, ero io.

E quel carro funebre

attraversava le strette vie

che portavano a quel piccolo cimitero di collina

dove io fui sepolto

e riposo di già.

Scialli neri

vecchie facce coperte da veli

silenziosa processione,

dormiva mio padre

piangeva mia madre

quell’accompagnamento era il mio

sì, era il mio

ma io non capivo, ero felice

e dall’alto osservavo stupito

quello strano spettacolo

sulla mia morte.
COINCIDENZE

 

Seguo una linea grandiosa

un’acutezza di senso

capace di rendere concreta

persino la fantasia.

E la visione

che parte generata dalla mia anima

si spande al di là degli orizzonti,

al di sopra delle piccole cose domestiche

ed è bellissimo

sentire come il senso dell’infinito

coincida fino a fondersi in uno stesso clima

con le cose più piccole.
NULLA È LONTANO

 

Grandezza e malinconia interiore

e povertà del mondo presente

ma la trasposizione mia

muta i termini del dissidio

ed è il bisogno di sognare

che rende grande l’opaco atomo terreno

illuminandolo di altre verità.

La fantasia ora avverte nel mondo

più segreti e profondi significati

dà immagine all’eco

si spande in altri mondi

si dissolve nell’immensità.

Ormai nulla è lontano dal mio spirito.

 
IL MARGINE SILENZIOSO DELLA MEMORIA

 

Nel margine silenzioso della memoria

che non è presente in me,

trovo rivelazioni e scoperte

un ricchissimo terreno umano.

La poesia restituisce alla vita

i nodi segreti

i ricordi assopiti

le reazioni più remote,

fa conoscere una nuova dimensione del reale,

a volte contro la ragione

a volte in armonia con essa,

sempre con libertà.

 
EGOISMO SOLITARIO

 

Sono il re

del mio egoismo solitario

che ha coscienza

soltanto per esprimerla in privato

in una totale esaltazione dei sensi.

Io non cerco più

un rapporto dialettico tra me e gli altri

e la mia concezione estetizzante della realtà

diviene dominio sulla folla,

forma una solitudine privata

dove il mio pene riaffiora docile tra le mie mani

fino a divenire una strana sensualità

fuori dai sensi

trasformata in un processo di spiritualizzazione.
ALLA DERIVA

 

È grigio il clima del perenne essere.

Tutto è caduto

le speranze perdute, le preghiere vane

le parole inutili, l’amore illuso

le primavere sfiorite, gli ideali mortali.

Ma non v’è più dramma in me

in questo continuo appassire e morire

ma completo abbandono.

Accetto di andare alla deriva

lasciandomi cullare dalla marea del tempo

in cui tutto si dissolve

fino a compiacermi del mio dolore.

È dolce sentirsi vittima, indifeso, inascoltato.

Capire che persino la vanità delle cose

diventa pura armonia.
VERRÀ POI LA MORTE

 

La mia vita passerà molto presto

drammatica e patetica

e con essa anche la sua ricchezza

fatta umana dalla fatica.

Il tempo,

un male che impoverisce la vita,

mi toglie ogni energia vitale,

il mio corpo senza speranza e senza salvezza

si rivolta, si risparmia, geme

s’illude ancora di strappare giorni, ore, minuti alla fine.

Ma vi è un altro male

subdolo e ancor più disperato:

quello di essere completamente solo

nell’umana comprensione di sé

costretto a tacere e fingere,

a rivedere il passato riflesso

nelle lacrime degli occhi che piangono

in un profondo bisogno di confidenze.

Triste appare allora il volto della memoria

come immobile silenzio che tende all’astrazione.

Verrà poi la morte del corpo

il distacco amaro.
LA MIA SOLITUDINE

 

Schivo mi stupisco di vivere

mi sento staccato ed incompreso

da tutti gli altri uomini.

Mi aggrappo agli scarti della vita

tutto il resto è inconsistente.

Non mi aspetto comprensione

né consolazione né tregua

consapevole della mia solitudine.

Ho scelto liberamente l’aridità e il deserto

e osservo le cose della vita

prosciugate e fisse

come simboli magici in una luce rarefatta.
LO STRAZIO D’ESISTERE

 

Urlo di masse

voci, passi, gesti

tra pietà curiosa e fanatismo,

irrazionale catena di incubi e fobie

ai margini dell’ossessione.

La personalità umana si lacera

il senso dell’alienazione incombe

la coscienza si smarrisce.

Spinto da una sofferenza solitaria e indecifrabile,

contagiato dalla multanime esistenza

affogo lentamente nel caos

e non ho scampo

se non nella perfetta solitudine.
LA MIA FOLLIA

 

L’infinita miseria della vita

la solitudine del mondo

la caducità della fama che passa.

E poi la morte delle persone care

l’incombente paura delle malattie

il continuo vagabondare senza pace dell’uomo

acuiscono la mia sensibilità

ma accrescono i sintomi della mia follia.

Cupe ombre di pazzia

si addensano minacciose su di me

travestite da un’atmosfera di lucida estasi.

È il dramma della mia ansia angosciante

la disperazione di tutto il mio essere

forse creato da Dio

ma poi lasciato a se stesso

privo d’identità, privo di vita

impossibilitato di comunicare

di capire e farsi capire.


LA MIA MODESTA FORMA UMANA

 

Ormai ridotto ad accettare la mia condizione

di uomo consapevole del proprio destino,

sento tristemente che la vita in me

invecchia inesorabilmente

che altri sentimenti, altre idee

mi nascono nell’anima,

che arte e vita procedono insieme,

e la poesia della mia vita solitaria

diventa essa stessa memoria.

Non è più la storia d’un uomo

che cerca l’illusoria grandezza dell’universo

ma semplicemente la povertà di chi

insegue soltanto la sua modesta forma umana.

Affido alla mia scrittura,

unico ed ultimo appiglio rimastomi,

la speranza di trovare ancora

punti luminosi sul mio cammino terreno

proiettandomi fin quando mi sarà possibile

e ne avrò ancora la forza,

nel tempo e nell’universale,

solo così la realtà della poesia

potrà apparirmi più ricca di significato

di quella della vita.
DESIDERIO D’INFINITO

 

Un sentimento dell’esistenza umanissimo

mi scorre dentro,

la mia spiritualità

è attraversata da malesseri sublimati

da torpori e da abbandoni,

trasalimenti e sofferenze confessate,

si distacca dalle cose terrene

diventa consapevole della fugacità umana,

è poesia per questo suo fluire

in mezzo alla vita

non ancora del tutto purificata

non ancora donata a una fede.

Le mie parole sono ultime gocce d’una vena

che ha già dato ciò che poteva dare.

La strada che porta alla bontà

mi libera dall’ansia

restituendomi un desiderio d’infinito.
IL CANTICO DI FRATE SOLE

(liberamente tratta dall’opera omonima di S. Francesco d’Assisi)

 

Benedetto tu sia, mio Signore!

con tutte le tue creature

specialmente per fratello sole

che fa diventare giorno

e illumina ogni cosa intorno

con grande splendore,

ed è bello, radiante.

Benedetto tu sia, mio Signore!

per sorella luna

che bianchissima, non dorme mai

per vegliare la notte,

e per le sorelle stelle

che hai creato in cielo

chiare, preziose e belle.

Benedetto tu sia, mio Signore!

per la sorella acqua

che è molto utile

è preziosa, è casta.

Benedetto tu sia, mio Signore!

per fratello fuoco

che rischiara la notte

ed è forte, è vivo.

Benedetto tu sia, mio Signore!

per la nostra madre terra

che ci sostenta stringendoci al suo seno

e ci offre frutti, fiori colorati, erbe.

Benedetto tu sia, mio Signore!

per i miei fratelli che sanno perdonare

aiutali nelle loro tribolazioni terrene

hanno bisogno della tua presenza

nella loro vita.

Beati quei fratelli che difenderanno la pace

saranno da te premiati.

Benedetto tu sia, mio Signore!

per la nostra morte fisica

dalla quale nessuno di noi può scappare

e guai a coloro che morranno nel peccato!

beati invece quelli che su questa terra

avranno fatto la tua volontà.

Laudate e benedite tutti il mio Signore!

e ringraziatelo

e servitelo con grande umiltà.
LA FAVOLA DI UNA PICCOLA LACRIMA

 

Da una bimba e un pianto nacque lei

piena di paure e ingenuità

chiara e trasparente dai suoi occhi si affacciò

e da quelle ciglia sottili piano piano scese giù.

Attraversò quel viso

dai lineamenti dolci

pulito di bambina

e per il mondo sola sola s’incamminò.

Ma era troppo ingenua

non conosceva il male

e la sua vita era già in pericolo.

E passarono in fretta gli anni

e anche le stagioni

venne presto l’inverno

portando con sé la pioggia.

Tante grandi gocce

cadevano giù dal cielo

tutte insieme,

erano prepotenti

si spingevano tra loro

si bisticciavano.

La dolce lacrima ben presto

si trovò sommersa

cerco di ribellarsi

ma era troppo buona

e non aveva la forza.

Così per non morire

pensò di tornare

dentro quegli occhi

dov’era nata.

Sola e stanca

cercò quella bambina

la cercò dovunque

e la trovò alla fine.

Ma era ormai cresciuta

non era più bambina

il suo viso era truccato

non si ricordò di lei

e la cacciò via con forza.

Così la povera lacrima

restò proprio sola

in balìa di tutti

senza alcuna difesa.

Vagava per il mondo

ignorata da tutti

sembrava invisibile

trasparente proprio come una lacrima.

E venne il sole

e con la sua luce

forte forte la illuminò.

Ma era ormai vecchia

allo stremo delle forze

e lentamente

si sciolse da sola.

Finisce così

la sua insignificante vita, la sua insignificante storia

e nel silenzio, la gocciolina muore.

Così è il mio destino

la storia di quella piccola lacrima

è uguale alla mia.
BIBLIOGRAFIA DELL’AUTORE

 

L’autore

 

 

Come sono dentro
Colei che brevemente fu e che mai in vita conobbi

 

 

 
 

Il vecchio e la ragazza


INDICE

 

 

Introduzione …………………………………………………………………..  p.    3

 

La mia anima è nuda ……………………………………………………..  p.    7

La mia mente …………………………………………………………………  p.  10

Vorrei ……………………………………………………………………………..  p.  14

Nico ………………………………………………………………………………..  p.  16

Madame Clelia ……………………………………………………………….  p.  19

Paese natìo di mia madre ……………………………………………….  p.  21

In simbiosi con l’universo ……………………………………………….  p.  22

Solitudine universale ……………………………………………………..  p.  24

Tristezza …………………………………………………………………………  p.  26

Sensazioni ………………………………………………………………………  p.  27

Infanzia lontana …………………………………………………………….  p.  28

Sull’orlo dell’abisso …………………………………………………………  p.  29

Il mio io cosmico ……………………………………………………………..  p.  31

Sfacelo ……………………………………………………………………………  p.  32

La luce del cosmo ……………………………………………………………  p.  34

Presenza viva …………………………………………………………………  p.  35

L’infinito …………………………………………………………………………  p.  36

Il passero solitario ………………………………………………………….  p.  37

Il sabato del villaggio ……………………………………………………..  p.  39

Memento ………………………………………………………………………..  p.  41

L’alba dell’uomo ……………………………………………………………..  p.  42

Mia Eva ………………………………………………………………………….  p.  43

La rigenerazione …………………………………………………………….  p.  44

Il mio funerale ………………………………………………………………..  p.  45

Coincidenze ……………………………………………………………………  p.  46

Nulla è lontano ………………………………………………………………  p.  47

Il margine silenzioso della memoria ………………………………  p.  48

Egoismo solitario ……………………………………………………………  p.  49

Alla deriva ……………………………………………………………………..  p.  50

Verrà poi la morte …………………………………………………………..  p.  51

La mia solitudine ……………………………………………………………  p.  52

Lo strazio d’esistere ………………………………………………………..  p.  53

La mia follia …………………………………………………………………..  p.  54

La mia modesta forma umana ……………………………………….  p.  55

Desiderio d’infinito …………………………………………………………  p.  56

Il cantico di frate sole ……………………………………………………..  p.  57

La favola di una piccola lacrima ……………………………………..  p.  59

 

Bibliografia dell’autore ……………………………………………………  p.  62

 

Questo libro è dedicato

al mio caro e grande amico

Giovanni Pierantoni

che mi ha sempre incoraggiato

a proseguire il mio cammino

lungo la mia strada di scrittore
Stampa:

 

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MESSINA

 

settembre 2006

 

COME SONO DENTRO ——- passo tratto dal libro “Il vecchio e la ragazza”

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Claudio Cisco
 “COME SONO DENTRO”
 

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INTRODUZIONE

È sempre difficile parlare di qualcuno con cui si hanno rapporti di profonda amicizia, mantenendo il giusto equilibrio.

Claudio Cisco nasce a Messina il 18/10/1964. Ho il piacere di conoscerlo da più di trent’anni, da quando cioè ero suo compagno di classe nelle scuole elementari. Non posso non ricordare con emozione quei periodi mai più ripetibili e in particolare il suo grande e quasi inspiegabile talento nello scrivere, rivelatosi sin dalla tenera età.

Ho ancora davanti agli occhi, come se il tempo non fosse mai trascorso, quel suo viso espressivo e misterioso insieme, meditativo e lontano che nascondeva chissà quali segreti, chissà quali pensieri, pensieri sicuramente molto più grandi di lui, fuori dal comune che nessuno all’infuori di lui poteva comprendere, così diversi e complicati rispetto ai miei e a quelli di tutti gli altri nostri compagnetti. Rivedo ancora nella memoria quei suoi occhi chiari e tristi di bambino, concentrati fissi sul quaderno e la sua mano che, come un automa, muoveva quella penna riempiendo infinite pagine, seguendo la traccia d’un tema, come se non riuscisse a fermarsi. Tutti noi suoi compagni, restavamo ammutoliti a guardarlo senza nulla saper scrivere, chiedendoci da dove riuscisse a tirare fuori tanta ispirazione pur riconoscendogli e ammirandone il suo grande dono di natura.

Continuo a seguire le immagini che il ricordo mi restituisce e rivedo con nostalgia i tempi dell’adolescenza quando ci frequentavamo, così diversi l’uno dall’altro. Lui solitario e introverso, un po’ timido che rideva a malapena d’un sorriso ineffabile e quasi celeste, io, al contrario, chiassoso ed esuberante ma ci rispettavamo sul serio, pur nella diversità dei caratteri, ci dividevamo ogni cosa, il panino in classe lo spezzavamo sempre in due, ci volevamo un bene dell’anima. Anzi, ad esser sincero, io sentivo verso di lui, quasi un complesso di inferiorità consapevole delle sue capacità artistiche ma mi sono guardato bene dal farglielo presente per non metterlo in una situazione d’imbarazzo.

Oggi che siamo diventati adulti, osservandolo, non riesco a staccare la sua immagine di adesso, da quella di quand’era bambino, sembra essere rimasto lo stesso, quasi si rifiutasse di crescere, a dimostrare che la giovinezza, quando la si possiede nell’anima, è eterna.

L’altro giorno, mi propone un suo libro “Come sono dentro”. Rimango, pur conoscendo la sua genialità creativa, stupito ugualmente e totalmente coinvolto dall’energia che emana. Il suo modo di scrivere è fuori da schemi. Le sue liriche danno risalto all’anima, a volte possente e virile, altre dolcissima e perdutamente sola ma sempre viva con un disperato bisogno di comunicare.

La lettura del libro poi mi rapisce totalmente. Colgo senza limiti il significato e la bellezza poetica.

Sono consapevole di essere di fronte ad una espressione artistica che va oltre le punte più avanzate degli scrittori di quest’epoca.

Non so se il lettore sia in grado di recepire tanta sensibilità e forza creativa, credo piuttosto che possa rimanerne sbalordito.

Questo libro raccoglie il meglio delle opere dell’autore dalla fanciullezza ad oggi, come sintesi della sua evoluzione poetica ed umana in genere. Per questo, con vivo interesse, vi invito a prenderlo in considerazione.

 

Vincenzo Fratantonio

 

 

 

 

Raccolta di

prose, poesie, pensieri, riflessioni

 

ALBA
Alba!

tu stai sorgendo,

silenziosa brezza nell’aria,

leggiadre ali intorno.

Alba!

tu stai spargendo il tuo colore

sul mare addormentato.

La tua pace mi sta cambiando.

La mia anima,

svegliandosi,

si sta aprendo all’amore

verso l’infinito.

Io sento che sto per nascere

sì, lo sento, io sto nascendo.
IN SILENZIO

 

Io e te,

mano nella mano,

camminiamo verso il sole

guardandoci in silenzio.

Le nostre orme sono raggi di luce,

nel loro chiarore, riflesso,

osservo il tuo viso dolcissimo

che m’incanta, in silenzio.

Siamo solo noi due,

creati l’uno per l’altra,

rapiti da questo sole immenso.

Un amore senza fine grande più di noi

ci trascina via lontano

e tu esisti ormai dentro di me

ti sento in ogni parte del corpo,

tu sei l’aria che sto respirando,

sei la mia stella che brilla nel cielo.

Vicinissimi, avvolti dal calore,

noi ci amiamo sfiorandoci in silenzio.

Siamo in viaggio da qui all’eternità,

eroi di un sogno in questo breve vivere,

non svegliamoci mai,

ed ora, in quest’istante magico,

tu ed io siamo un solo essere,

non so più dove finisci tu e comincio io,

dove si dilegua il sogno e appare la realtà,

ora tutto acquista un senso

e finalmente scopriamo insieme

che c’è qualcosa di noi,

un motivo per vivere.

Non siamo più soli,

finché mi starai vicina, saprai tutto di me,

avrai il meglio di me stesso

e tu con me sarai sincera.

Stringimi la mano più forte,

sei l’unico scudo tra me e il mondo,

ho bisogno di te per non morire.
PRIMO AMORE

 

Un’ondata improvvisa di luminosi ricordi

sommerge per un attimo i duri scogli della mia realtà

e la schiuma che ritorna al mare,

lascia un immenso prato verde

ricamato morbidamente dalle esili mani della primavera

e in quel giardino, d’incanto,

sbocciarono fiori di mille colori e ali dorate di farfalle,

lì v’era un bimbo che inseguiva felice il volo d’un aquilone

ed una bambina

che sfogliava dolcemente i petali d’una margherita.

Era bello correre insieme a lei, mano nella mano,

tra le spighe di grano più alte di noi

e l’azzurro del cielo che sembrava così vicino, non finire mai,

saltellare a gara con i cerbiatti,

e seduti in riva al ruscello,

gettare ramoscelli sull’acqua per vederli galleggiare dolcemente

e all’imbrunire, sudati e sporchi di terra,

scappare sul colle più alto

ed osservare il volo libero di stormi di gabbiani su oceani limpidi,

aspettare in silenzio l’arrivo dell’arcobaleno con i suoi mille colori

e lì: “Io ti voglio bene anche se non so baciare” le dissi

col cuore che batteva forte come un uragano,

lei sorrise, mi baciò la guancia

e sbocciava così il mio primo amore

mentre una cicogna volteggiava in festa per me.

Ed ora, proprio in quest’istante mentre ti bacio amore mio,

io rivivo l’emozione d’allora,

la stessa gioia ti giuro, lo stesso candore

e quanti ricordi ancora vorrei rivivere con te,

non più da bambino, ma da uomo ormai,

quante piccole emozioni nascoste in fondo al mio cuore

vorrei regalarti!

quanti segreti avrei da svelarti!

Ma tu … tu non capiresti mai

perché non so capirmi neanch’io

e non so come mai stai con un ragazzo come me

che ha ancora quei prati vergini nell’anima,

che resta sempre solo anche se tu sei qui vicino a me

pronta ad amarmi: che buffo!

Ti prego non dirmi che sono un bambino

anche se non so far l’amore,

anche se il mio mondo è ingenuo.

Tu mi sorridi e sfiorandomi la mano, mi dici:

“Non esiste al mondo ragazzo migliore di te”.

Amore mio,

io ti amo per non sentirmi solo,

per sorridere e volar via,

per vincere la paura che c’è in me,

per fermare la mia giovinezza che va via.

Amore mio,

è così naturale essere felici,

come mai la gente non lo sa,

non mi crede!
DOLCISSIMA STELLINA

 

Dolcissima Stellina,

timida come un pallido sole dietro le nuvole,

tenera come un piccolo usignolo addormentato sul nido,

dal sorriso luminoso e fresco come stilla di rugiada

tu sei per me il sogno d’una notte incantata,

l’effimera illusione d’un amore irrealizzabile.

Sei in questo mio vivere terribilmente oscuro

come una luce fioca

che da lontano cresce… cresce… fino ad abbagliarmi l’anima

col tuo modo di muoverti sublime come ali di cigno

e la tua voce melodiosa come cori di augelli.

Lacrime lucenti di gioia

brillano adesso nei miei occhi.

In un attimo tu hai riempito di bello il mio cuore,

dipinto di sogno la realtà

ed io non vorrei mai più svegliarmi da questo momento magico.

Sembra quasi d’averti già conosciuta tanto tempo fa

in qualche sogno lontano chissà dove

e se guardo attentamente nel fondo dei tuoi occhi,

scopro in essi l’infinito vibrare

e tu ed io uniti che voliamo via sempre più su senza limiti,

dileguandoci come due gabbiani liberi verso l’orizzonte.

Restano ammutolite nel mio silenzio magico

mille parole, mille sensazioni

che sento ma non riesco ad esprimerti,

non so come spiegartelo

ma avverto dentro, qualcosa d’indefinibile, mai provata prima,

meravigliosamente reale al tempo stesso:

un bene prezioso e profondo sommerso in me stesso

come il rosso corallo negli abissi del mare.

Da una vita sono in cerca di te

ma tu sei più di quanto aspettassi.

Dolcissima Stellina

Abbi cura di te, ti auguro di non cambiare,

resta quel germoglio che sei adesso.

Non gettare al vento il fiore della tua giovinezza,

non smarrire col tempo la purezza dei tuoi sguardi,

l’armonia d’ogni tuo gesto

perché solo tu riesci a sorridermi con gli occhi,

hai in te qualcosa in più che appartiene solo agli angeli:

che ne sarà mai del tuo viso innocente e pulito

quando, domani, cadranno le lacrime degli anni?

e quel giorno, ora tanto lontano, ti ricorderai di me?

Addio mia dolcissima Stellina!

avrei voluto darti molto di più

tornando adolescente insieme con te nel tuo mondo

ma sono dai tuoi anni

ormai disperatamente lontano.

Ti lascio in questa poesia

il mio ricordo di ragazzo solo come te

ed ogni volta che la leggerai, d’incanto,

non esisteranno più barriere né distanze tra noi due,

io, di colpo, rinascerò in te

e tu, specchiata nella mia anima,

sarai qui vicino a me.
BELLA MESSINA

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Come chiave d’oro che apre al paradiso,

Messina spalanca la porta alla Sicilia perla incantevole.

Bella Messina,

che si lascia corteggiare da due mari,

contemplata dall’alto dalle sue montagne,

sempre spettinata dal vento,

bagnata dal mare ed asciugata dal sole,

Messina presa per mano dalla Madonna.

Bella Messina

quando dondola dolcemente le navi del suo porto,

quando incoraggia e protegge il sudato lavoro dei suoi pescatori,

quando saluta piangendo ma aspetta con ansia

il ritorno d’un suo figliuolo che s’allontana senza lavoro,

quando, nelle sue ville, accompagna il lento andare d’un vecchio,

guarda commossa gl’innamorati delle sue panchine,

gioca trasformata in bambina con i suoi piccoli.

Bella Messina

quando si tinge di giallorosso dietro la sua squadra,

quando si pavoneggia per accogliere i forestieri,

quando, tutta parata, si trucca con i colori della vara

ed l mito dei giganti,

divertente e scapestrata come il suo dialetto.

Messina lunga donna dagli esili fianchi

con gli occhi blu come il suo mare

ed i capelli d’oro come il sole delle sue spiagge,

baciata sulla superficie del mare da mille gabbiani,

che col suo stretto maliziosamente s’avvicina

senza lasciarsi toccare,

Messina che all’alba apre gli occhi sul mare

e di notte s’addormenta sotto un lenzuolo di mille luci.

Messina solare dalle ali libere verso l’orizzonte

con gli occhi luminosi mai annebbiati,

sposa d’un clima ch’è armonia in ogni stagione,

Messina che con frutti e fiori profuma di primavera.

Bella Messina

defunta ma risorta dopo il 1908,

Messina che vuole andare avanti,

che non vuol morire più,

vestita ormai di abiti sempre più moderni.

Bella la mia Messina

è la mia terra, la mia città,

qui sto bene, sono felice.

Ogni sua strada, ogni sua via

è casa mia, il mio giardino.

In lei sono nato

ed in lei voglio morire.
TU BAMBINA

 

Tu bambina, tu semplicità,

tu gioia e serenità, tu l’infinita innocenza.

Tu che vivi felice i giorni della tua giovinezza,

tu che ti affacci con paura alla tua adolescenza.

Dai tuoi occhi traspare ancora

la magia di un mondo che sa di fantasia

e chissà se il tuo piccolo cuoricino

riuscirà ad esprimere ciò che sente dentro.

È sbocciato adesso un amore

e forse stai provando qualcosa che non hai mai provato prima,

sarà per te il primo dolore

ma sarà dolce lo stesso come il succo d’una caramella,

e le prime lacrime

avranno ancora lo splendore della tua innocenza.

I tuoi pensieri sono di amori fugaci,

i tuoi giochi tenere primavere

e tu ora dondoli spensierata nell’altalena dei tuoi desideri

come quando stringevi la tua bambola

che hai perso ormai.

Dipingerai di sogno i tuoi giorni,

colorerai d’arcobaleno persino i tuoi disegni

e li annoterai dolcemente nel tuo caro diario.

Vorrei regalarti una vetrina e riempirla dei tuoi sentimenti

così chiunque, sostando lì,

scoprirebbe la ricchezza che hai dentro.

Crescerai in fretta e non mi vedrai più con gli occhi di bambina

so che ti perderò per sempre.

Mille ed infinite parole non bastano a descriverti,

mille ed infinite poesie

non potranno farti capire quanto sei importante

ma quello che provi dentro non crescerà mai,

servirà a farmi rivivere ricordi di adolescenze perdute.

Con te bambina

correremo insieme e voleremo via lontano

verso nuovi orizzonti,

lì, resteremo per sempre

anche se dovrò dirti mille ed infinite volte: “Tu bambina”.
LA FINE DELLA CICOGNA

 

Un serpente velenoso

s’insinua vischioso nel mio giardino d’infanzia,

due mani sporche di fango,

maliziosamente,

rubano al mio impubere corpo l’innocenza.

Sui miei occhi appena aperti

calano inesorabili ombre senza più luce.

I sorrisi ingenui delle fate

divengono tentacoli della paura.

Muore sbocciando quel fiore reciso

che non crescerà più.

Mi hanno ucciso la cicogna

e con lei anche Gesù Bambino.

 
OSSESSIONE PER UNA NINFETTA

 

Spiccava col suo giovane corpo e l’aria da bambina

tra la gente ignara,

quel piccolo micidiale demonietto,

inconsapevole anche lei del proprio fantastico potere.

Mi guardò col suo visino indecifrabile di ragazzina tredicenne

come se mi avesse letto il desiderio negli occhi

fino ad intuirne la profondità,

e nel preciso momento in cui i nostri occhi s’incrociarono,

tra di noi si stabilì subito un’intesa

capace di annullare in quell’attimo qualunque barriera

ed io non avrei potuto abbassare gli occhi

neanche se fosse stata in gioco la mia vita.

La sfiorai ma senza osare toccarla,

respirai intensamente quella sua delicata fragranza

che sapeva di borotalco,

e da quel punto così vicino eppure disperatamente lontano,

ebbi per la prima volta la consapevolezza,

chiara come quella di dover morire,

di amarla più di qualsiasi cosa avessi mai visto

o potuto immaginare,

e di voler essere il primo ad assaporare quel piacere proibito

che soltanto la mia giovanissima dea dell’amore

avrebbe saputo offrirmi

in un paradiso illuminato dai bagliori dell’inferno.

Un uomo normale,

forse per vergogna o sensi di colpa,

scaccerebbe via dalla propria mente simili pensieri.

Bisogna essere artisti,

eterni bambini sempre in volo senza logica né equilibrio,

folli di malinconia e di disperazione,

di solitudine e di tenerezza

per lasciarsi totalmente trasportare e tormentare

dalla magica ossessione per quella ninfetta.
ASSENZA

 

Bastava un tuo sorriso

per mostrarti bella dentro e fuori

come un inno alla grazia,

malgrado le tue smorfie ed i tuoi capricci,

desiderabile, né donna e né bambina, favolosa e splendida

con la tua travolgente sensualità acerba

mista di malizia e d’innocenza.

Eri un cucciolo indifeso tra le mie braccia,

non riuscivi a tirare fuori la donna che stava nascendo in te.

Di quella mia incantevole lolita

che mi aveva stregato persino l’anima

fino a possedermi del tutto,

e del suo sconvolgente modo di essere,

non mi rimane ora che l’eco di un coro di fanciullesche voci

udite in lontananza e perdute per sempre

come foglie morte sparse lungo il sentiero

in una stordita calma irreale.

È la mia fine come uomo,

l’apice della mia ispirazione come artista.

La mia vita è ormai alla deriva nelle tue mani di bambina

obbedisce al tuo volere senza più orgoglio, senza dignità.

Mi tormenta l’immagine dei tuoi coetanei

che posano i loro sguardi carichi di desiderio

sul tuo giovane corpo.

È folle il pensiero che la tua verginale bellezza

appartenga esclusivamente ad un uomo della mia età

ma più ti sento irraggiungibile

e più cresce in me il desiderio di averti.

Come un vecchio mendicante ormai solo ed esausto,

chiedo ancora ad una ragazzina che non ha colpa,

l’elemosina d’un amore che mai potrà darmi.
NOSTALGIA

 

Le inquietudini del mio primo bacio

e poi le affascinanti scoperte intime,

i primi turbamenti,

quei peccati d’una età che non torna più,

scomparsa per sempre.

E tu sorellina timida timida

ed io fratellino impacciato e buffo,

tra sguardi e silenzi ci spiavamo dentro l’anima,

imparavamo ad amare.

Provo con la fantasia a tornare bambino

insieme con te nella poesia di quel nostro magico mondo.

Cerco invano di ricreare quegl’innocenti momenti intensi,

mi ritrovo il fantasma d’un uomo

già inesorabilmente invecchiato.

Quelle due giovani creature

ora son come cristalli di ghiaccio d’un viso d’inverno.

Quell’antica primavera

è ormai neve e gelo.
RICORDO D’UNA RAGAZZA SCOMPARSA

 

Le serate passate sulla nostra scogliera,

il bacio lì, in riva al mare

col tramonto che ascoltava le nostre anime

mentre il mare suonava la nostra canzone.

Tanti ricordi, tanti momenti felici,

tanto amore.

È questo che vorrei gridare in silenzio

ma a che serve ora che non ci sei più?

La tua vita è stata troppo breve

come il nostro amore.

Forse il tuo compito

era farmi provare un sentimento nuovo per me: l’amore

per poi scomparire come un angelo.

Sei salita al cielo

ed ogni notte, piangendo,

cerco di vederti tra le stelle.

Addio per sempre!
SPERANZA

 

Nel buio della mia solitaria esistenza,

proprio sul punto di smarrirmi,

vorrei improvvisamente incrociare la luce dell’amore,

tra mille volti riconoscere il tuo soltanto,

e come un bambino,

di colpo,

scoppiare a piangere di gioia.
VIAGGIO NELL’ANIMO MIO

 

Muta di parole e sguardi,

la mia mente vaga lontano in penombra

dove il pensiero non ha confini

e tutto può sembrare reale.

Così, col bisogno del ricordo e del pianto,

penso al mio passato e alla sua perduta giovinezza,

al mio presente fatto di tempo fuggente,

al mio futuro sconosciuto ed incerto nelle sue mille paure.

Quanta dolcezza nel guardarsi dentro e perdersi in sé stessi!

Quali emozioni

nel vagare libero tra solitudini e silenzi profondissimi!

Mi scuoto

e lentamente mi desto da un viaggio

nel profondo della mia anima,

del mio essere così fragile, così indifeso

rispetto alla grandiosità della mia vita.

 
VOLO

 

Ho aperto i miei occhi, liberato la mia mente

sfidando tutti i miei limiti,

ho lasciato alle spalle gabbie, catene,

labirinti, muri insormontabili,

e quell’uomo morto ch’ero ieri

e che oggi non riconosco più,

fino a ridere della mia disperazione del passato,

persino la morte sembra inchinarsi

alla mia nuova voglia di vivere.

Dentro di me

l’oscurità s’è trasformata in un riverbero di luce,

nell’anima esplode

l’incredibile forza dell’amore verso la vita.

Vedo nuovi orizzonti

distendersi davanti ai miei occhi.

Intorno a me

spazi infiniti m’invitano a raggiungerli.

Tutto è ancora da scoprire

e mi sta aspettando,

e con l’entusiasmo di un bambino,

m’accorgo per la prima volta,

quanto sia meraviglioso vivere.

Non ho più paura ormai.

Solo,

con il vento in faccia,

apro le mie ali

e mai più mi fermerò.

Finalmente adesso volo.
RICORDI

 

Si dirada come per incanto

la nebbia che mi avvolge

e s’apre d’improvviso il cielo

col suo manto azzurro,

torno a ritroso nel tempo in seno ai miei ricordi

come alghe marine che succhiano caute mammelle di roccia.

Mi vedo a otto anni

quando avevo un’amica soltanto

che volevo bene come sorella.

Ricordo ancora come fosse ieri

i suoi capelli neri a boccoli

che le coprivano quell’esili spalle

come schiuma del mare accarezza gli scogli.

Era una bambina orfana

e la sera, quando andava a dormire,

si addormentava con due mele vicino,

la più grande suo padre, la più piccola la madre,

aveva un segreto, teneva le mele sotto il cuscino.

Mi chiedeva spesso:

“Come mai le tue poesie son tristi e tu non ridi mai?”

non sapevo mai risponderle.

Da grande sognavo già di sposarla,

le dedicavo poesie e come per magia il suo caro viso spariva

ed io mi vedevo in un teatro affollato

con tanta gente in piedi ad applaudirmi.

A quindici anni

evitavo i compagni, i giochi e le feste

e restavo da solo per ore

ad osservare la distesa infinita del mare,

una voce dentro mi ripeteva sempre:

“I sogni non muoiono mai”.

Cercavo la libertà,

mi chiedevo se nell’universo esistesse qualcuno simile a me,

immaginavo di volare via per scoprire il mondo

senza ritorno, senza fermarmi

come un’onda senza mai una spiaggia

ed i miei occhi ragazzini curiosi e attenti,

si perdevano in lontananza,

laggiù dove si disperdeva il mare oltre l’orizzonte.

Son diventato uomo troppo in fretta

e non riesco più a sognare.

Cerco ancora l’arcobaleno d’allora,

trovo le inquietudini di adesso.

La speranzosa attesa d’un tempo,

le antiche illusioni,

come oggetto prezioso caduto per terra

e frantumato in mille pezzi,

sono morte e crollate inesorabilmente

nell’amara consapevolezza del nulla che mi circonda.

Ma perché bisogna dire addio

sempre alle cose più belle?

alle delizie che promette ma non concede la vita?

Rassegnati animo mio,

le tue domande non conosceranno mai risposte!
IL TRENO DELLA VITA

 

E il treno corre,

corre lontano sui binari della vita,

lungo la strada del mio dolore.

Va via velocemente

proprio come i miei anni,

il mio tempo che scorre.

Dai vetri del finestrino

vedo montagne invalicabili di paure,

pianure non più verdi di speranze invecchiate,

laghi salati di pianto amaro.

Vedo fiumi, violente cascate trascinare via tutto quanto,

mari in tempesta come i miei pensieri irrequieti.

Vedo gallerie coprire il sole come i miei momenti bui,

miraggi di felicità nei deserti della mia esistenza,

il cielo dove non ho mai volato,

lontane isole esplorate solo nei sogni,

nebbia lontana e foschie senza amore, senza fortuna

e poi

file di alberi e nuvole passare come un susseguirsi di emozioni,

paesi e città fuggire malinconicamente come i ricordi più belli,

prati verdi dove correvo sull’erba da bambino,

rivedo mia madre aspettarmi a braccia aperte,

odo nel vento la sua voce che mi chiama.

Il treno corre

la sua corsa senza fine

senza ritorno, senza fermate

ed io via con lui

m’allontano sempre più senza sapere dove andrò,

certo di perdermi solo

come un vagabondo senza famiglia.

Addio casa mia d’infanzia!

Addio amici della mia adolescenza!

Addio giovinezza perduta per sempre!

Quanta struggente nostalgia mi avete lasciato!

Com’è triste non poter tornare indietro!

Ma perché la vita è una corsa continua?

Perché la fine di un viaggio non c’è mai?

Mi fermerò soltanto

quando giungerà l’autunno con la sua folata gelida,

come foglia ormai ingiallita,

sarò strappata dal mio albero,

trascinata nel vento.

 
LA FRASE PIÙ BELLA

 

“Se per gli altri ormai sei grande

per me resterai sempre il mio bambino”.

È la frase più bella che mi hai detto

e che da sempre avrei voluto sentire.

È un pensiero profondissimo,

a tal punto che neanche tu puoi capire quanto.

Forse è Dio che ti ha ispirato

per rendermi felice.

Tu mi hai gettato in mare un’àncora di salvezza

dove io mi aggrappo con tutte le mie forze per non annegare

e trovo le mie poesie, il tuo amore per me.

Nessuno malgrado i propri sforzi

è mai riuscito a cogliere la mia ricchezza interiore,

la mia sensibilità profondissima, la mia particolarità,

il mio disperato bisogno d’amore.

È solo riuscito a intravedere

come sono dentro

ma in lontananza

senza mai percepirmi a fondo.

In questo mondo dell’immagine

l’apparire conta più dell’essere

anche perché spesso l’essere non c’è.

Amante della solitudine e della tenerezza,

senza nessuno che mi somigli,

cerco da sempre

un’anima che mi comprenda.
ATTRAVERSANDO IL SOLE

 

Da un oblò,

chiuso nella mia stanza,

vedo il sole uscire dai monti.

La sua luce m’abbaglia.

Continuo ad osservarlo

con l’anima aperta alla speranza

ed i miei occhi rimbalzano sul suo splendore

e vanno su te

che sei così tanto lontana

al di là della mia immaginazione.

Ti vedo riflessa nel sole in controluce.

E tu puoi guardare me.

Tu ed io alle due estremità d’una scia luminosa

che ci avvicina passo dopo passo

unendoci sempre più.

Ci veniamo incontro

percorrendo raggi di luce.

Ora tutti sono morti,

sono più vecchi

ma noi due siamo ancora insieme nell’aria

come bambini

attraversando il sole.
PREGHIERA D’UN’ANIMA IN PENA ALLA LUNA

 

Luna,

tu muta e bianca

sul destino degli umani

posi silente lo sguardo.

Solinga e distante,

sorella del buio e delle ombre,

non ti diletti e non piangi

ma taci,

osservi e sempre taci.

Eppure chi può dirmi se non tu

se è per natura perdente l’umana sorte

o se riposerà alfin ciascun mortale

e avran sollievo le sue notturne paure?

Vorrei chiederti o mia cara luna

a che serve vivere

e dove porta questo terreno viaggiare,

per cosa si arresteranno i battiti del mio cuore?

Ma tu mi appari misteriosa e vana

come lo è tutta l’esistenza umana

senza risposte, né certezze,

incurante della mia anima che anela, brama di sapere.

Io fragile essere, piccolo e limitato

tu immortale creatura d’uno sconfinato universo,

eppure quanta grandezza nell’umano spirito

nel desiderare l’infinito pur comprendendo la propria piccolezza!

Silenziosa luna presto dovrai andar via,

l’alba si sta svegliando,

la terrena notte illuminerai nuovamente alla fine del giorno

ma gli occhi del mortale uomo rivedranno ancora luce?

e le piante e gli animali tutti qual destino avranno?

Luna

musa ispiratrice di poeti e cantanti,

meta irraggiungibile di sogni lontani,

compagna notturna di viandanti e zingari,

lascia che io alzi lo sguardo fino a te,

ultima sconsolata preghiera d’un’anima in pena.

Tu luna vegli sopra uno strano mondo

fatto di pazzi.

Qui non c’è amore né comprensione

ed io non voglio più starci.

Un immenso buio

ha schiuso le ali sul mondo

e sul cuore degli uomini,

e questa notte sembra non aver mai fine.

Addio anche a te luna!

la mia solitudine è ormai segnata

in un presagio di morte

che prelude al pianto.
SOGNO

 

Io cerco

quel che non esiste

e che nel nulla svanisce

in un effimero sogno.
A TE MARIETTA (1855-1872)

 

A te Marietta!

che se sei stata la gioia, l’amore di qualcuno,

A te Marietta!

che non ti ho vista mai.

A te che t’immagino come un fiore

che sboccia, fiorisce e muore senza dolore:

chi potrà mai piangere o lodare

la tua cruda e gelida pietra

che forte ed imperterrita

sembra sfidare la collera del tempo?

A te Marietta!

che ti penso sempre

come una dolce ragazza vestita di bianco

che con il bruno dei tuoi capelli

formi un vistoso e sublime color di primavera,

a te che guardando la tua tomba

mi s’incenerisce il cuore.

A te Marietta!

che nessuno un volto ti sa dare

e che con insistenza la tua immagine m’immerge

nel lontano passato della tua vita.

Non so chi tu sia stata

né saprò mai il motivo della morte

che presto ti colpì

ma so con certezza

che questa è la tua pietra

e che in essa il tuo corpo giace.

A te Marietta!

scrivo queste righe

per aggrapparmi all’illusione di un lontano ricordo

che mai ci fu.

 

Dedicata a colei che brevemente fu

e che mai in vita conobbi.
L’IMMAGINE

 

Un bagliore improvviso

squarcia la mia mente assente,

e dall’ignoto all’ignoto,

ora fugge ora torna

ora torna ora fugge.

Pallida e soave,

di dolcezza inebriata,

m’appar dinanzi ancor e sempre.

Nitida sagoma,

a tratti t’avvicini,

di colpo, opaca t’allontani.

Le sciolte tue trecce

dal terreno mondo sembran distaccarmi

trascinandomi in sconosciute dimensioni

dove neanch’io so chi ero, chi sarò.

Fulgidi gli occhi tuoi

m’abbaglian forte

ed io ti sento in me

o sconosciuta immagine di profondo mistero velata.

Non un volto,

non una realtà,

solo negletti ed esili fiori

ed un’antica tomba assopita accanto

per trattenere forte

l’enigma della tua sorte.
DESCRIZIONE D’UN RITRATTO FUNEBRE

 

Da lassù, in uno strano sogno,

Marietta mi narrò del giorno in cui morì,

quel suo lontano ricordo

del 28 settembre 1872.

 

Ancor limpido era il sole della mia giovinezza

anche se lì fuori con pioggia e vento

battea la morte alla mia porta

e con voce certa ma affannata

forte mi gridava:

“Vieni Marietta, presto vieni”.

Ricordo lontanamente che in un primo momento

un brivido di paura m’assalia fino a farmi tremar

ma poi aprendo nuovamente gli occhi

il composto sguardo di mio padre il mio coraggio mi ridiede

e mentre un prete mi donava l’estrema unzione,

io sentivo di dover andare fra le secrete cose.

Scendean dalle scale le mie cugine

tristi apparentemente ma contente e fredde nell’animo,

mi facean pena vederle illudersi ancor

di quella lor vana ricerca della terrena bellezza

che come un fiore dal petalo si strappa

e appassendo muore.

Suonava l’organo un bimbo mai in vita conosciuto

ma che allora sembraa d’averlo visto da sempre

e in quella dolce musica stancamente mi si chiudean gli occhi

mai rinnegando quella serena bellezza

che sempre in vita m’avea contraddistinta.

L’ultimo mio sguardo nel pallore della morte

era rivolto verso mia madre

che addolorata ma mai rassegnata

l’ultimo bacio mi donava.

Ed ora dopo che il tempo tante orme ha cancellato,

i miei pensieri son tanti ieri

che nell’ignoto fuggon lontano,

ed il mio oggi così come domani

è armoniosa luce.

 

E fu così

che dal sogno mi destai

completamente assente
DIALOGO TRA MANUEL (IL VERO ME STESSO)

E MARIETTA

 

Manuel: Perché vuoi scomparire Marietta? Tu eri viva, esistevi davvero.

Marietta: No Manuel, io non esisto più, non posso esistere, non posso vivere per colpa degli altri che non vogliono più farti sognare. Tu devi restare con i piedi per terra altrimenti verresti deriso da tutti, preso per pazzo. Devi convincerti che io sono il frutto della tua grande immaginazione, la proiezione del vero te stesso. Tu mi hai fatto rinascere dalla morte perché hai creduto con tutta la tua mente, con tutto il tuo cuore, alla forza di sognare che hai dentro di te. Io prima ti ero vicina, ti parlavo, ti capivo, ero reale perché tu ascoltavi la voce dei tuoi sogni, dei tuoi desideri ma adesso tu stai dubitando della tua immaginazione, non ascolti più il vero te stesso e mi stai facendo morire per sempre. Manuel perché non ascolti più la voce del bambino che è in te? Non senti questo caldo agli occhi che vorrebbe essere pianto? Tu mi avevi creato, adesso perché vuoi distruggermi? Con me morirai anche tu, non ti ritroverai più, resterai solo, almeno io ti capivo perché ero lo specchio del vero te stesso, ero la tua libertà, la tua energia vitale, perché Manuel vuoi annientare tutto? Manuel non sono io che sto fuggendo da te ma sei tu che per sempre stai fuggendo da me. Ti prego resta te stesso, ascolta i tuoi sogni, non morire anche tu diventando uguale agli altri, tu sei diverso da loro. Quando si crede ai sogni veramente, niente diventa impossibile. Io ero morta e grazie a te sono rinata.

Manuel: Marietta, ma se per gli uomini è così importante sognare come mi stai dicendo tu, perché allora non ascoltano i loro sogni? perché se io provo a sognare mi emarginano?

Marietta: Tutto questo Manuel accade perché sognare è come essere liberi. Gli uomini sono nati liberi perché sono spiriti liberi, hanno avuto da Dio il dono della libertà e quindi hanno diritto di sognare ma, chissà perché, hanno paura della loro stessa libertà, non riescono ad essere sé stessi e preferiscono chiudere le loro menti e così non sognano più. È per questo che nel mondo c’è odio, invidia, materialismo, c’è l’arroganza del potere, ci sono le guerre, perché è molto più facile comandare sulle menti chiuse che non credono più a niente e così si arriverà alla fine.

Manuel: Marietta, io sento che tu hai ragione. Io non voglio soffocare la mia mente, la mia libertà, la voglia di sognare, voglio restare me stesso ma come posso fare? Ormai vivo in un mondo chiuso che non sogna più. Se resterò me stesso, non mi capirà nessuno. Cosa posso fare Marietta? Ti prego aiutami, cosa posso fare?

Marietta: Devi restare sempre te stesso Manuel. Vivi la tua libertà, dai ascolto ai tuoi sogni e non sarai mai solo. Saranno i tuoi stessi sogni a portarti lontano, a farti compagnia e poi ci sarò io con te perché sento che stai ricominciando a credere ai tuoi sogni ed io non sto morendo più. Scrivi una storia, la storia di noi due, leggila a chiunque, bussa ad ogni porta. Non aver paura se ti prenderanno in giro perché ci sarò io a darti forza. Racconta di noi due al mondo intero, ai bambini, ai vecchi, non ha età la forza dell’immaginazione. Vedrai che qualcuno, in questo momento, sentendo la nostra storia, sta cominciando ad aprire la sua mente e a provare a volare finalmente, perché ci ha capiti, perché dentro è uguale a noi ed è bello poter essere capiti da qualcuno per quello che siamo realmente, è bello poter aiutare il nostro prossimo. Coraggio Manuel, dammi la mano e camminiamo insieme.

Manuel: Sì Marietta, camminiamo insieme.
APPARIZIONE D’UNA FIGURA SOGNANTE

 

Dolcemente chinata, quasi curva

su quella che era la sua tomba,

di abiti ottocenteschi vestita,

illuminata da un raggio di luce

come un tremulo brillio

rapito così fugacemente dall’infinita luce divina,

la vidi mentre coglieva quei fiori

che io stesso le avevo portato sulla sua pietra.

Li coglieva uno dopo l’altro fino a formarne un mazzo,

poi si slegò una treccia dal bruno dei suoi capelli

e legò insieme quei fiori dai colori misti

che profumavano di primavera.

Io la osservavo attentamente meravigliato e confuso

ma senza aver paura,

una figura così sublime non poteva infondere timore

ma solo tenerezza e profonda commozione.

L’unica cosa che riuscivo a connettere

nella magia di quell’istante,

era che quella ragazza che stavo osservando

aveva un aspetto identico a come io stesso l’avevo immaginata.

Poi lei alzò il capo dolcemente,

mi guardò e mi sorrise

mostrandomi lo splendore d’un volto angelico pallido e soave

contornato da un alone di mistica bellezza,

puntando i suoi occhi scuri penetranti

dritti e fissi sui miei,

ed io,

non potendo pur volendolo

spostare i miei occhi in nessun’altra direzione,

sostenni come ipnotizzato il suo sguardo.

E fu così che in quella mattina di gennaio,

nobile nel portamento e aggraziata nei gesti,

misteriosamente affascinante lei mi apparve.
ALL’INTERNO DELLA CHIESA

 

Ed io mi trovavo lì per la prima volta davanti alla chiesa e stavo per varcare la soglia. Quella porta color rosso porpora sempre chiusa, l’unico giorno che desideravo ardentemente entrarvi, stranamente la trovai socchiusa in atto di chi invita a farlo.

Cautamente, portando avanti il piede sinistro, poi il destro, tastando con la mano, aiutandomi con un pezzo di legno trovato lì per difendermi da possibili spiacevoli incontri, un po’ come quel cieco che cammina aiutandosi col tatto sconoscendo ciò a cui va incontro, io pian piano, in questo modo entrai. La prima vista varcando la soglia, fu quella di una stanza polverosa, vuota, abbandonata da tanti anni ormai. Il silenzio veniva interrotto a squarci da strani rumori che ora vi entravano, ora vi uscivano dalla finestra perché quella stanza aveva una finestra sbarrata, arrugginita che sporgeva dietro la chiesa verso altre tombe. Ai lati del tetto v’erano appesi due quadri che portavano foto raffiguranti due Madonne quasi sbiadite. I quadri erano piccoli e le due Madonne però erano diverse l’una dall’altra. Una aveva l’espressione triste, compianta, l’altra invece sembrava un po’ più rassegnata certa di trovare ristoro nella carità cristiana, nell’aiuto di Dio. Nel guardare quei quadretti che spiccavano in mezzo al muro bianco in parte smangiato, mi vennero in mente tutti coloro che dovevano essere ricoverati quassù in tempi passati, confortati dall’aiuto della Madonna ed io immaginavo i dolori, i pianti, le preghiere, le invocazioni che ora tornavano come un’eco nella stanza che sembrava pacata, addormentata, serena, straordinariamente elevata al cielo. In cima al tetto, v’era appeso un lampadario a forma di cerchio che teneva strette delle lampadine spente, alcune delle quali consumate dal tempo, come quelle candele che vengon meno affievolendosi dinanzi all’altare. Da questa stanza, vi si entrava in un’altra tramite un’apertura uguale alla prima però senza più porta. Entrando, per terra, vi erano pezzi, schegge di legno penso della porta stessa. In quest’altra stanza di dimensioni e di atmosfera simile alla prima, io vedevo la cosa più bella: un crocifisso intatto, vivente con uno sguardo fisso che sembrava dire: “Venite a me voi tutti che siete afflitti ed io vi consolerò”, e chissà quanti moribondi del passato così han fatto. Intorno alla stanza, v’erano delle sedie, almeno una ventina, alcune delle quali rotte. Penso servissero per ascoltare la messa, lo capivo infatti osservando un vecchio incensiere abbandonato per terra come un barbone addormentato, e lì vicino, boccette di vetro, calici e roba simile che riconducevano facilmente alla comunione e all’estrema unzione, sacramenti che accompagnavano e insieme infondevano speranza in questo luogo di sofferenza e disperazione. Sopra quel crocifisso carismatico che io continuavo ad ammirare del tutto rapito, v’era una chiesetta in miniatura uguale a questa dove io mi trovavo. Credo che sia stata posta sopra l’immagine del Cristo per simboleggiare l’elevazione divina dei perseguitati dalle malattie verso Dio stesso, tramite suo figlio Gesù. La terza ed ultima stanza nel bassopiano della chiesa, era anch’essa come le altre, anch’essa conteneva delle sedie, una decina circa, sparse sparpagliatamente. Per terra, v’era un escremento umano che mi fece intuire che qualcuno prima di me, doveva essere venuto fin quassù, mi chiedevo chi, visto che la porta la trovavo sempre chiusa. Nell’angolo più nascosto della stanza, come un cane orfano del padrone singhiozza e s’accovaccia per terra, silenziosamente, così v’era posto un organo con una tastiera unica e scordata, da tempo mai più suonato. Io, d’istinto, mi avvicinai e provai a schiacciare quei tasti polverosi e molli ma non vi usciva suono, solo silenzio, eppure io avvertivo, nel tastare quell’organo, una celestiale melodia che sembrava trascinarmi in paradiso. E pensavo che tutti coloro ch’eran morti lì, e furono davvero tantissimi, ora dovevano essere felici per l’eternità e così la mia pietosa compassione divenne certezza, come il chiarore d’una luce lontana che si scorge alla fine di un tunnel, in mezzo a tanto buio. Non so dirvi cari lettori, se quelle strane sensazioni che avvertivo lì dentro, erano dovute a fenomeni paranormali o a suggestioni naturali, certo è che sia l’una, sia l’altra ipotesi eran perfettamente valide, visto la misteriosità di quel posto. Poi, di colpo, restai senza fiato ed immobile, e cominciai subito dopo con passi certi e misurati, a dirigermi verso un sottoscala dove saliva una scala pericolante a chiocciola. Lentamente provai a salire cercando di arrivare in quella finestra misteriosa per affacciarmi anch’io da dove sembrava ci fosse il fantasma d’una dolce ragazza vestita di bianco con i capelli al vento, ma più salivo e più mi accorgevo che il rischio aumentava. La scala infatti cominciava a cigolare, era fatta di uno strano tipo di legno. Io, ormai del tutto rapito da quest’incantesimo, ero lì deciso a salire sino in cima per arrivare in fondo a questa storia come se quella scala simboleggiasse il mistero ma, ad un certo punto, la vidi spezzata, non ho mai saputo il perché, né se poi più su sarebbe ritornata sana, ma l’impressione che ebbi in quel momento, fu quella che qualcuno o qualcosa inspiegabile, non volesse farmi arrivare nemmeno ad un quarto dell’altezza di quella chiesa. Così, deluso, ritornai indietro, chiusi la porta, e ormai coraggioso e forte, mi avviai al di fuori per scoprire fra le antiche tombe, quella che ormai sembrava fortemente vicina, sembrava fortemente chiamarmi.
IL MISTERO

 

Rapito dal tuo vortice

sto scrutando il tuo cielo infinito,

volteggiando nel tuo vento impetuoso,

naufragando nel tuo mare in tempesta,

sprofondando nei tortuosi meandri della mia mente,

ma sto solo impazzendo

perdendomi in un labirinto enorme.

Scopro l’ignoranza della scienza.

Smarrisco la mia fede.

Rimango spaventosamente affascinato.
MORTE SOLITARIA IN UN CIMITERO DESERTO

 

Odore di morte, ricordi segnati da croci,

paura angosciosa, solitudine senza fine,

tristezza cupa, silenzio assopito,

pianti accorati, rosario di dolore.

Lumicini ardono, crisantemi ornano le tombe,

fotografie di gente che non è più,

ombre vaghe di cipressi,

aria che trema di fiamme e di preghiere,

io che diverrò cenere, sarò ombra di nulla,

niente rimarrà di me:

e quale conforto potrò avere,

perduto tra volti sbiaditi di fotografie d’epoca,

dagli occhi tristi dei posteri?

Una bimba inginocchiata su una tomba,

col cuoricino infranto e gli occhi che s’apron a stento,

unisce le sue labbra e per due volte le dischiude

supplica e singhiozza un nome santo,

il nome della sua mamma.

Un angelo sceso dal cielo

su lei schiude le ali,

e non visto,

nelle mani raccoglie quelle stille viventi per il suo Signore.

Io, smarrito, da solo,

come un uccellino spaurito,

vado per le vie di un cimitero deserto.

Con la mente nel buio

cerco la mia tomba.

Quì dentro tutti mi somigliano

loro morti davvero, io defunto dentro,

con i morti ci so stare.

Io muoio pian piano così

nel triste rosario delle cose che non han ritorno

ma tutto rimarrà com’era,

la mia vita è inutile,

nessuno mi ricorderà,

nessuno s’accorgerà che sono andato via.

Io solo nella vita,

io solo con la morte addosso.

Tomba abbandonata in un angolo oscuro,

faccia sbiadita dal pianto,

occhi già ciechi nel buio,

rughe sul mio viso ancora giovane.

Anima mia stanca, ricordi che non avuto mai,

sogni svaniti nel nulla, speranza affievolita dal tempo,

amore che non mi riscalda più, giovinezza che non è più mia,

morte che mi viaggia accanto.

Questo son io, altre parole non servono.

Eppure la voglia di gridare,

di ridere forte, di spaventare la morte,

c’è ancora dentro me.

Eppure sono figlio della luce, brillo sotto il sole,

ho ali per volare, un cuore per amare,

una mano tesa ancora c’è,

ma il mio sangue è fragile per vivere, troppo fragile!

getto via l’acqua pur assetato di vita

e chissà, forse qualcuno mi capirà,

mi darà il suo sorriso, mi salverà.

No, il buio, no!

Ma poi torno in grembo all’eterno destino.

Il tempo è crudele con me,

mi strappa via dalle cose che sentivo più mie.

La vita è una corsa inarrestabile,

gli anni scivoleranno su me ed io non potrò più fermarli,

so bene che soffrirò, invecchierò,

piangerò tanto, morirò.

Aspetterò in silenzio,

questo tempo nemico della bellezza sciuperà il mio corpo,

trascinerà via la mia ultima fiamma,

disperderà ogni mia speranza,

qualcun altro la raccoglierà.

Tutto fugge e va via veloce

ed io mi accorgo che non mi resta niente,

forse solo una lacrima perduta

in fondo al mio cuore,

forse solo il bene che ho dentro

che mi fa amare di più.

Ed io sto male

e piango in silenzio nel buio della notte,

nascondo nel pianto la mia poesia.

Signore,

dammi la forza di supplicarti ancora,

di chiederti amore.

Le mie parole in una preghiera,

volano in cielo

e fanno piangere Dio.
NULLA ETERNO

 

Non vi fate sedurre,

non esiste ritorno,

non c’è nulla dopo,

morrete come tutte le bestie

divorati da vermi.
SOLO NEL BUIO

 

È notte fonda ed io sono ancora sveglio con lo sguardo assente nella mia camera silenziosa, unica mia compagna, testimone di tanta solitudine. Senza chiudere occhio, penso a tutto e a niente. I vecchi soliti dubbi mi si accavallano in mente: come posso dormirci sopra? Sì, lo so! Fermarsi qui a pensare non si può, farla finita neanche. È solo mia la tristezza, la fine. Non ho più la forza di lottare ormai. Un altro inverno è in me, non devo crollare proprio adesso buttandomi via, devo trovare il coraggio di andare avanti da solo: Dove siete amici miei che avevo? Anche tu mi hai detto infine addio voltandomi le spalle, non sono più niente per nessuno ormai. Mi guardo intorno e vedo solo il vuoto. Grida la voce del mio cuore, spenta dal dolore che nessuno ascolta più. Vorrei non essere mai nato, chiudere gli occhi e scomparire in un attimo. Non so che sarà di me, sono confuso, disorientato, mentre gli anni passano veloci. Fuori è buio ed io tremo, comincio ad aver paura. Mi rigiro nel letto, grido nel sonno, ho incubi, sto male, piango e non ce la faccio più.

Dove fuggire un’altra volta? Come placare questa mia ansia fortissima? Ormai le ho già provate tutte, ogni tipo d’evasione, non è servito a niente! Ora mi ritrovo solo, nel buio, con i fantasmi della notte che m’inseguono molto più di prima. Sono nato solo. E solo morirò.
COME IN UN INCUBO

 

Penso agli anni della mia giovinezza

che mi sono lasciato alle spalle

e, per nostalgia,

mi viene una gran voglia di piangere

e un terribile timore d’invecchiare e di morire.

Mi sento dentro

terribilmente solo e smarrito

con una forte e struggente

paura nell’anima,

come in un incubo

dal quale non posso svegliarmi o fuggire.

Il tempo che mi rimane davanti,

oscuro e minaccioso,

è una clessidra di morte

che m’avvicina sempre più alla fine

inesorabilmente.
RIFLESSIONI

 

A dispetto del tempo che inesorabile scivola sui miei anni, son rimasto quel bambino sperduto di ieri con lo stesso terrore di crescere, solo ed incompreso tra mille paure. Ho ancora voglia di sognare, illudermi, fantasticare. Vorrei rifugiarmi in un mondo solo mio, ricco di colori e d’ingenuità, dove poter finalmente tornare bambino senza crescere più, allontanando le terribili ombre della solitudine, della vecchiaia, della morte stessa, ma è un mondo fragile spezzato crudelmente dalla nuda realtà. Così, ogni volta che provo a volare in alto, una forza sconosciuta ed impietosa, mi taglia le ali ed io precipito giù più triste che mai, come un gabbiano che non vola più, mentre le mie lacrime, quelle stesse che percorrevan lente il mio viso pulito di bambino, continuano a non sapere quel che loro stesse vogliono e a non trovare quel fazzoletto che le possa asciugare per sempre. In esse, vedo riflessi i miei sogni, li vedo morire uno dopo l’altro sciogliendosi come gocce di pioggia disposte in fila, sospese alla ringhiera.

Continuo ad osservare con occhi limpidi e stranieri, l’immenso mare della vita ma è sempre inutile sforzarsi nel tentativo d’immergersi. Vedo lontano quel veliero che da piccolo chiamavo col nome di speranza e che non è partito mai. Eppure m’accorgo che dentro e fuori di me, v’è ancora tutto da scoprire e da imparare. Sento in me una grande energia vitale, creativa ed artistica. C’è in me una sensibilità profondissima, spaventosamente grande a confronto del mio fragilissimo essere che più s’ingrandisce e più resta isolata, soffocata dentro come un vulcano che dorme. Vorrebbe esplodere e sommergermi come un fiume in piena ma non può farlo, come una bottiglia smossa dalla quale non è possibile togliere il tappo. Forse sono troppo diverso da tutti perché possa essere capito, o forse è solo colpa mia se non riesco a esternare quello che ho dentro. Comincio a credere di essere un folle, quasi un alieno, così almeno mi creo un alibi per giustificare questo mio giovane vivere, terribilmente e prematuramente invecchiato.

Ho un disperato bisogno di vita, di giovinezza, di entusiasmo, d’amore. Con chi potrò aprirmi manifestando come sono dentro? Chi potrà veramente capirmi? Vorrei trovarti e finalmente gridarti con tutto il fiato che ho: “Ispirami, sconvolgimi, amami”. E intanto cresce il terrore d’invecchiare e il desiderio di morire ancor prima di vedere il mio corpo mortificarsi con le prime rughe. Non potrei mai sopportare il tremendo contrasto tra l’immortalità del mio spirito che, nonostante tutto sembra che esista, e la debolezza del mio corpo in declino. Sono sicuro che dentro, resterò sempre un bambino mai cresciuto anche se avrò i capelli bianchi e conserverò intatta nelle pupille degli occhi, la stessa luce ch’emanavo da piccolo. Amo troppo la giovinezza e non posso fare a meno di sognare per potermene fare una ragione sulla vecchiaia che è uno stato del tutto naturale e, di conseguenza, accettarla con rassegnazione o addirittura giustificarla. Per me la vecchiaia resta il più grave e doloroso castigo che la natura scagli contro gli uomini. È più malvagia e terrificante persino della morte. Eppure devo ammettere che la mia solitudine e la mia tristezza, sono nate con me, le ho conosciute da giovane, almeno in questo, la vecchiaia non c’entra. Estraniato da sempre dalla vita, non avendo niente ed essendo di nessuno, ho scoperto man mano me stesso. La mia solitudine è simile ad un messaggio chiuso in una bottiglia e gettato in mare. Forse un giorno, quando non ci sarò più, leggendo queste mie accorate riflessioni, mi capirai e, scoprendo che valevo qualcosa, piangerai per me.
IO E LA MORTE

 

È un paese morto. Strade malinconicamente deserte, aria pesante, spaventosamente tetra. Furtive ombre si sparpagliano e si riuniscono subito dopo, quasi per sentirsi meno sole. Silenzio assoluto, interrotto soltanto da voli di pipistrelli, da rintocchi lugubri di campane. Porte chiuse, finestre sbarrate, occhi atterriti ed impotenti che, dagli usci delle case, spiano lei, signora e sovrana, padrona di tutti noi. Lungo mantello nero, teschio in faccia, bastone per reggersi, curva lei cammina zoppicando e lentamente, sola ed indisturbata. Nessun muro potrà fermare la sua falce. Ha in mano un taccuino verde speranza dove vi sono annotati i nomi e le ore di coloro i quali deve ancora chiamare ed uno nero morte con i nomi di chi ha già rapito con sé! Bambini, continuate il vostro girotondo e ridete di lei che vi sembra così buffa e troppo lontana. Ragazzi innamorati, stringetevi forte l’uno all’altra, mano nella mano, tra sogni e amore, lei non si commuoverà e verrà a prendervi lo stesso. Uomini e donne, accumulate glorie e tesori, lei non si farà comprare e, alla sua venuta, tutto dovrete lasciare. Vecchi, raccomandate le vostre anime a Dio, lei non avrà paura e sarà ancora più vicina di quanto possiate pensare. Gente chiusa nelle vostre case, cos’è questo silenzio? Musica! e scherzate forte, e ridete forte, continuate il vostro ballo in maschera, recitate la commedia della vita ma, sul più bello, tu sentirai bussare alla tua porta.

Inutile ogni tentativo di fuga o di gridare aiuto. Interromperai la danza, toglierai la maschera, abbandonerai la tua dama e le tue damigelle e andrai, nostalgicamente deluso, con lei, più non tornerai. Un istante di silenzio in casa tua insufficiente anche per piangere e poi, immediatamente, lei rialzerà il sipario e riaccenderà le luci, e la musica e la danza, imperterrite, ricominceranno senza più una maschera, la tua. Sì, lei porterà anche te in quel malinconico recinto di foglie morte ed alberi spogli e stecchiti e il tuo corpo straccio, sdraiato si confonderà tra quelli che lì ci son già da tempo. Io, di colpo, evito le braccia di chi vuol fermarmi e scappo giù in strada da solo e le corro dietro. “Perché?”, le grido con disperazione, “perché devo morire? Che male ho fatto per non poter vivere per sempre? Dimmi che ho un’anima, un respiro che vivrà in eterno. Dimmi che il mio sangue non è il liquido d’un automa, che il mio cuore non è un motore, i miei nervi non sono fili sottili uniti tra di loro fatalmente, la mia mente non è un computer. Vedi, io ti parlo, ti sento, io sono felice, sono triste, ho paura, so scrivere una poesia. Ti prego signora sovrana, tu che sei l’unica che puoi, risparmiami, non farmi morire. Io amo un fiore, una coccinella, un bimbo, amo la vita”. Lei si ferma e mi guarda in faccia. È strano ma di colpo non ho più paura. È così naturale osservarla in volto, come se si trattasse di un incontro indispensabile, sembra quasi una figura viva, e pensare che la immaginavo diversa e cattiva. Lei mi risponde: “Va via ragazzo, tua madre t’aspetta a casa e ricorda sempre, tu potrai anche essere come me per un solo istante morendo, ma io non potrò mai essere come te quando risusciterai in eterno”. Poi mi volta le spalle e, girando l’angolo, scompare. Io rimango confuso, triste e felice nello stesso istante e, piangendo divertito, correndo, torno a casa.

 


QUESTA VITA BREVE

 

Non camminare piano

quando puoi correre,

e non ti accontentare

se ti accorgi che puoi volare,

e non restare muto

quando puoi gridare.

Ascolta la voce della natura

e piangi quando hai voglia di farlo.

Vivi intensamente l’amore,

rincorri la tua felicità.

Apprezza il valore della salute,

ama chi ti sta vicino come se lo vedessi per l’ultima volta.

Non rimandare a domani quello che puoi fare ora,

non indugiare e non procurarti rimpianti,

questa vita è talmente breve ed imprevedibile,

la vecchiaia e la morte son sempre in agguato.
I BURATTINI UMANI

 

Sono vivo o sono morto da secoli?

Sono libero o qualcuno mi guida?

La via che seguo l’ho scelta io o è stata già scritta?

Questa mia storia buffa morirà con me

o si perderà nell’enciclopedia del tempo?

Mi hai acceso la corrente

ed il mio sangue ha cominciato a scorrere.

Mi hai caricato l’orologio

e la mia pressione segna 80, 90, 100.

Mi hai dato la corda

ed il pupazzo si sta muovendo

ma la chiave che mi dice chi sono

perché non me l’hai data mai?

Ti faccio ridere lo so

ma io non so chi sono.

Allo specchio vedo la mia maschera,

mi guardo intorno ed ecco tanti burattini come me

chi è bello, chi è corto, chi ha gli occhi verdi,

chi sta morendo e chi sta per nascere

ma tutti con lo stesso sconosciuto destino.

Mio Dio, quanto sono stupidi i burattini umani!

hanno un’anima ma non lo sanno.

Sono monotoni, tutti cronometrati

99 centesimi di secondo ad un secondo

e corrono in ufficio.

Si sposano per avere figli

che a loro volta faranno altri figli, che noia!

Tutti si chiedono di capire

ma nessuno di loro ha mai capito un bel niente.

Tutti pronti ad insegnare

ma insegnare cosa se neanche loro non sanno nulla?

Ognuno dice la sua, ognuno crede che abbia ragione lui.

È un teatro folle e buffo pieno di burattini colorati,

un enorme carrozzone di maschere e coriandoli

e anch’io, senza sapere come,

mi ritrovo in mezzo

senza averlo minimamente voluto.

Se guardi attentamente fra tutti questi pupazzi che si muovono,

puoi vedere anche me.

Vedi sono quello laggiù vestito d’Arlecchino

con i capelli lunghi e che sta sempre da solo,

anch’io, come gli altri, sto recitando la commedia della vita

nel carnevale dell’incomprensibile esistenza umana.

Ti prego riconoscimi se puoi,

distinguimi da tutti questi burattini,

dammi un senso alla mia vita

perché io non mi sento uno di loro,

perché io non sono fatto di bottoni e tasti

e non voglio fili che mi muovono.

Vedi io piango e rido, so dare amore,

sento di essere immortale e originale.

Sin da piccolo mi hanno programmato come un computer

contro la mia volontà.

Mi hanno costretto a recitare

in un palcoscenico che ho sempre odiato

e che non mi appartiene.

Mi hanno fischiato e applaudito

mentre in realtà io piangevo

perduto tra tutti questi burattini in cerca d’allegria

che compravano e vendevano questa pelle mia.

Mi hanno dato un nome che non è quello mio.

Mi hanno voluto per come io non sono,

io angelo travestito da manichino.

Ti prego portami via e salvami,

dimmi chi sono, io non mi conosco.

Per questo ora dico basta!

non voglio più obbedire a regole e dogmi

o a una falsa morale come gli altri burattini.

Preferisco sentirmi libero all’inferno che schiavo in paradiso,

padrone di niente, servo di nessuno.

Meglio essere un uomo vero, solo ed incompreso

che uno dei tanti burattini umani.
SOLITUDINE E LIBERTÀ

 

Solitudine è libertà,

libertà è solitudine.

Voglio essere completamente solo

per sentirmi veramente libero.
LA POESIA DEL GABBIANO

 

È arrivata esultante

la stagione del gabbiano,

è tempo d’emigrare

verso terre lontane

per scoprire nuovi segreti,

nuove sensazioni.

Un nuovo giorno è oggi

per spiccare il volo sulla superficie del mare aperto,

sull’orlo dell’oceano,

per volteggiare sulla cresta dell’onda.

Vola nel vento gabbiano,

vola più in alto che puoi,

non ti fermare.

La mia penna

saranno le tue ali,

i miei versi

la tua scia.
PRIMAVERA

 

Petali di fiori,

ali di farfalle,

canti di uccelli,

profumi nell’aere.

Il sole che sorride,

il cielo che sta a guardare.
L’ARMONIA DEL CREATO

 

Da ogni notte buia

rinasce sempre il sole

così come dal bruco

fuoriesce ogni volta una crisalide.

E fra una stella lassù ed una lucciola quaggiù

nessuna distanza, la stessa luce.

Tra Dio e l’ultimo insetto creato

nessuna differenza, la stessa perfezione e l’identico amore.

Ogni cuore che palpita,

anche il più piccolo che esista nell’universo,

è un battito di vita e d’amore.
LUNGO LE STRADE DEL MONDO

 

Girando a lungo per le strade del mondo

ho incontrato tanta gente:

bianchi e neri, ricchi e poveri,

santi e carcerati.

Ho conosciuto servi e re,

cristiani e musulmani, suore e prostitute.

All’apparenza

mi sembravano diversi gli uni dagli altri

ma poi li ho visti piangere

tutti allo stesso modo.

Ho capito dentro di me

che esiste una sola razza: l’umanità,

un solo gesto: la solidarietà.
DOLCE SILENZIO

 

Dolce silenzio

cosa mi nascondi?

chi può dirmi se m’inganni?

se dolori e tempeste son prossimi?

e mentre io,

estasiato,

dalla dolce tua magia mi lascio rapire,

chissà quant’altra gente

soffre, si dispera, s’abbandona.

Dimmi o dolce silenzio

dov’è celata la chiave dell’umana esistenza?

Che sarà di me?

e fin quando goderti posso?

perché eterno peregrinar è questo nostro viver

e quel poco di pace che mi vuoi offrir

è gran gioia per me e di essa mi nutro

errando solitario per i campi

tra immote piante e assopite creature.

Dolce silenzio,

immenso tu sei

ed il mio esser fragile

dinanzi a te si perde sotto l’azzurro del cielo

come piccola cosa tra le innumerevoli cose,

come formica d’un enorme formicaio

persa tra tutte le altre.

O dolce e profondo silenzio

che all’eterno sonno somigli,

prendimi con te e invasami,

i miei tormenti assopisci,

e nel tuo languor pacato,

supino m’addormento in un dolcissimo morir,

forse senza mai più mirar

la viva luce del sole.

 
FANTASMI NELLA NOTTE

 

Ascolta ragazza sperduta in quest’infinito.

È notte. Ogni cosa intorno è spenta e tace.

Nel silenzio dolcissimo

altre sensazioni di un mondo totalmente sconosciuto

ma intrinseco con i nostri giovani spiriti,

vivono con suoni e colori in dimensioni parallele.

Attimo fugace,

come un fiore che sbocciando muore,

in questa notte t’amo per non amarti più.

Noi due siamo come fantasmi nella notte,

anime vaganti in cerca d’amore,

muovendoci insieme, in trasparenza,

candidamente invisibili, ci avviciniamo piano

per non aver paura nell’oscurità.

Noi due fantasmi nella notte,

solitari astri dispersi nel grande firmamento lassù,

senza tempo e senza storia, rapiti dall’oblio

misteriosamente avvolti dalle tenebre,

angeli di questa giovinezza.

Magicamente lontani

dal flusso impetuoso della multanime esistenza,

noi due non avvertiamo più il battito sconfinato dell’infinito

come orrenda solitudine e mistero interminabile.

La realtà ci appare

come un susseguirsi di fantasmi vuoti e meccanici,

ed ogni residuo di tristezza

si smarrisce del tutto o vibra remoto

in un placamento soave.

Ragazza sconosciuta,

sei bella tra le ombre,

sei più bianca della luna,

il tuo viso brilla come una candela.

Lascia questa mia mano

che hai stretto così fugacemente questa notte.

Alle prime luci dell’alba

le nostre strade si divideranno

per non ritrovarsi mai più.

Abbiamo acceso un fuoco in noi

che il vento della vita che fugge

spegnerà presto.

Non dimenticarmi ovunque sarai,

io non ti dimenticherò ovunque sarò

anche se resteremo per sempre

fantasmi nella notte.
LA LEGGENDA DI CAMILLA

 

Chi di realtà si nutre

defunta ombra del nulla eterno è,

chi ai sogni crede,

la collera del tempo affamato

vincerà nei secoli.

Fra i castelli fatati dei mie sogni

Illa io ti sto inseguendo,

è la tua leggenda.

Gelosi folletti la raccontano in sogno.

 

Una notte di duemila anni or sono,

Camilla, una leggiadra ed esile ancella,

scrisse nel suo cuore:

“L’amor non vien da me, la fede stanca illusione,

la mia tenera età fior che appassisce,

ai sogni affido il mio avaro destino”.

Disperata ma senza lacrime,

corse verso quel dirupo che dominava quella valle

incantata da filtri magici, popolata da gnomi,

e da lassù altissima si gettò

gridando al vento prima di schiantarsi al suolo:

“Io vivo e vivrò per sempre”.

Sopra quella valle,

il tempo arrestò la sua corsa affannata

e, come per incanto, tutto restò immutato.

Ed ancor oggi, duemila anni dopo, il viandante solitario

che ignaro non conosce la storia di lei

ed attraversa quell’angusta e remota valle,

senza veder né capir nulla,

ode nel leggero mormorio del vento,

l’eco della voce del fantasma di lei

che ripete ancora:

“Io vivo e vivrò per sempre”.

 

Sì, nella mia fantasia,

tu Illa sei viva

e vivrai per sempre

con me.
IL VOLTO INQUIETANTE DEL MIO MALE

 

Vorrei svegliarmi da quest’incubo,

gettami acqua fresca in viso,

il ghiaccio mi assale,

scaldo le mani con un po’ di fiato.

Cerco in me una via d’uscita

ma non esiste fuga,

non c’è posto per nascondersi,

proteggermi non puoi.

Diverso da ogni altro,

nella terra di nessuno,

tutto intorno tace

in un silenzio irreale.

Guido senza meta,

faccio sesso senza amore,

riflesso in uno specchio

c’è un fantasma al posto mio.

E non trovo le parole

per spiegare ciò che ho,

ogni cosa intorno a me

appare sadica e crudele.

È inutile sforzarsi

di essere normale,

non posso fingere a me stesso

proprio non funziona mai.

Trascinato dentro un labirinto enorme

vedo stanze tutte uguali;

in ognuna di esse

mi attraggono piaceri sempre nuovi.

Sembrano dirmi:

“Entra da noi, esaudiremo qualunque desiderio

non importa che sia proibito

vedrai sarà bellissimo”.

Sbagliare è facile

se non sai più chi sei,

non ho saputo dire no,

mi sono perso in un vicolo cieco.

La strada ammaliante del piacere

mi viene incontro senza ostacoli,

preda inerme della concupiscenza

tocco il fondo pensando di raggiungere la cima.

Sono schiavo del mio istinto,

intrappolato nella mia angoscia,

c’è un’ombra che mi insegue,

dovunque vado non mi lascia mai.

In una danza infernale,

senza fermarsi mai,

girano intorno a me

fantasmi ed incubi.

Voglio scoprire la tua origine,

combattere ed annientare le tue tentazioni,

fino a giungere faccia a faccia

con il volto più inquietante del mio male.

Sì, scaverò nei miei profondi abissi

tirerò fuori il demone a cui appartengo,

a costo d’impazzire,

giuro io mi libererò.

La mia anima smarrita

ora sprofonda dove non c’è luce,

nuda nuota sott’acqua,

non riemerge più.
STORIA D’UN VECCHIO EREMITA

 

Vivo quassù tra le montagne

rifugiandomi nel mio nido silenzioso

in un lungo e solitario esilio.

Ho abbandonato il mondo col suo grigiore

per osservare felice i colori dell’arcobaleno

ed ogni volta scoppio a piangere di gioia

mentre la mia anima si purifica nella luce del sole.

Non ho incubi che mi svegliano di soprassalto,

non vedo più quei mille volti della gente pronti a sommergermi,

è lo sguardo magico della natura che m’incanta

e mi protegge nel buio

come una madre schiude le ali sul suo piccolo.

La scala dei miei giorni,

di gradino in gradino, sta salendo sin lassù,

per questo veglio paziente ogni alba che nasce,

così, giorno dopo giorno, m’avvicino al cielo

e non ho paura di volare via nell’ora del tramonto,

so che rinascerò in primavera per non essere mai più solo,

la morte mi aprirà le porte alla vita eterna,

e gli occhi della natura

che sono stati la luce della mia terrena esistenza,

diverranno gli occhi di Dio lassù.

Attendo la pace della sera per addormentarmi in un lungo sonno,

stelle d’argento e cori di uccelli

porteranno lontano oltre le montagne l’eco della mia solitudine

ed i miei sogni fragili saranno foglie verdi d’un albero solitario

che la collera del vento non potrà mai spazzare.

Un freddo e misterioso inverno

busserai alla mia porta frustata solo dal vento,

e addentrandoti nel mio nido,

troverai quel panno che mi asciugava il sudore,

il bastone che aggrappava la mia fatica,

una candela che non si consuma,

e quando sarai al sicuro,

rivivrai i ricordi di quello che sono stato,

ammirerai la statua di quello che sono adesso.

In un angolo buio,

impolverato da tele,

scoprirai il mio diario segreto,

frammenti d’una vita mai vissuta

povera fuori, ricca dentro.

Non bruciarlo ma fanne tesoro,

è la memoria che infrange i secoli

e vince il silenzio dell’universo,

il buio della morte.
PERDENDOMI NEL TRAMONTO

 

Un altro giorno sta passando uguale agli altri

ed io sono da solo con i miei pensieri come sempre,

dentro l’anima sospesa tra i ricordi e l’infinito,

una irrefrenabile voglia di fuggire via,

di respirare forte l’aria.

Con la mia auto corro sull’asfalto verso chissà dove,

come per riscattare l’anima dal suo torpore

ma la strada sembra farsi sempre più triste.

Il sole scende lentamente all’orizzonte,

la sua luce, filtrando attraverso le mie lacrime,

mi mostra il suo colore su ogni cosa intorno

avvolgendo il paesaggio d’una malinconica bellezza.

Vedo la spiaggia deserta,

odo il rumore del mare che s’infrange contro gli scogli,

sento il calore della sabbia sotto i piedi nudi e mi sento vivo,

seguo la via illuminata che il tramonto sembra indicarmi.

E in quella luce, come una visione,

mi appare il tuo viso

così vicino da sembrare reale,

per quante notti l’ho sognato!

Purtroppo i sogni vanno via col vento e si dissolvono

ma io, chissà perché, non l’ho mai dimenticato.

Ora vedo scomparire, laggiù in fondo al mare, il sole,

nasconde i suoi ultimi raggi quasi furtivamente,

e la superficie dell’acqua,

che nelle giornate serene

luccicava come ricoperta da miriadi di specchi,

assume quel triste colore che segue al crepuscolo,

delineando il profilo d’una natura morente.

Anche il tramonto ormai,

come tutte le mie cose più belle,

è fuggito via.

Ed io mi trovo ancora qui in riva al mare

senza sapere il perché.

Portami via dove sei tu,

non lasciarmi solo.

Distante dal mondo,

senza ombra viva intorno e col tempo che vola,

la mia anima s’è perduta

volgendo anch’essa al tramonto.
BIBLIOGRAFIA DELL’AUTORE

 

 

 

“Anima sepolta” (1983)

Un’espressione poetica d’avanguardia, alternativa, dove fobie ossessive e fantasmi interiori, esternandosi, si tramutano con sepolcralità in energie negative lugubri e macabre, segni indelebili d’una morte interiore eternamente rassegnata nel misterioso mondo della follia e dell’inconscio. È la fine vitale d’un’anima sepolta. L’autore sente dentro di essere ormai un’ombra che ha paura perfino di rivedere la luce e come unico rimedio, non ha altra speranza che la morte.
 

 

 “Apocalisse mentale” (1989)

Monologo in prosa surrealista, cerebrale e filosofica. L’autore medita sul senso della propria esistenza e sul destino universale di tutti gli esseri viventi. Si rivolge alla natura affinché possa svelargli il mistero che circonda tutte le cose ma l’interrogazione risulterà dolorosamente vana, non rivelerà nessuna verità e porterà la sua mente sino al delirio. La natura continuerà ad apparirgli bella e spietata, fino al punto di trasformare in poesia e vita, proprio come la bellezza d’un tramonto, persino il doloroso momento d’un addio o della morte stessa. La vita vana e fugace, è allettante e ingannevole come il canto delle sirene, l’autore ne è consapevole ma, proprio per questo, sente di amarla ancora di più e di non potersi più staccare da essa.

Seguendo la strada della follia, si lascerà annientare in tutto il suo essere e in questa sua apocalisse, troverà conforto in un poetico abbandono.

  

 

 

 “Colei che brevemente fu e che mai in vita conobbi” (1996)

La narrazione è ambientata a Messina, nella parte più alta ed antica del cimitero dove è tuttora sepolta la protagonista del racconto. Manuel, un ragazzo diciannovenne messinese, strano e solitario, rincorre ossessionatamente l’ombra di una ragazza vissuta nella stessa città per quasi diciassette anni nel secolo dell’Ottocento, figlia di nobili dell’epoca: Marietta Cianciolo. Si lascia talmente coinvolgere da quest’incantesimo, da effettuare minuziose ricerche sull’identità e sulla vita passata di lei. Arriverà a rasentare la follia, non riuscendo più a distinguere il confine che divide il reale dall’immaginario. Farà rinascere dalla morte la ragazza grazie alla forza dell’immaginazione e alla sua fervida fantasia, fino a instaurare con lei una profonda amicizia fatta di confidenziali dialoghi di alto spessore umano e spirituale. Il romanzo racchiude numerose citazioni sulla storia di Messina antica con particolare riferimento alle origini del cimitero monumentale e alla genealogia di molte famiglie nobili messinesi dell’Ottocento.

Alcune liriche contenute nel libro “Come sono dentro” sono tratte dalle suddette opere.

 

 

A te Marietta (1855-1872) – L’immagine – Descrizione d’un ritratto funebre – Dialogo tra Manuel (il vero me stesso) e Marietta – Apparizione d’una figura sognante – All’interno della chiesa

Da “Colei che brevemente fu e che mai in vita conobbi”

 

 

Preghiera d’un’anima in pena alla luna – Il mistero – Nulla eterno – Io e la morte – I burattini umani – Dolce silenzio – Fantasmi nella notte

Da “Apocalisse mentale”

 

 

Morte solitaria in un cimitero deserto – La leggenda di Camilla

Da “Anima sepolta”
“Come sono dentro”

è dedicato a mia madre

che non ha mai smesso di volermi bene

nonostante la mia vita sia stata un fallimento.

 

 

Ringrazio voi tutti

che crederete in me e nel mio libro,

 

 

Marietta per avermi ispirato ancora una volta,

 

 

e infine me stesso per aver dato,

nello scrivere e nella realizzazione di questo libro,

tutto quello che avevo dentro.

 

 

Claudio Cisco
INDICE

 

Introduzione ……………………………………………………………………..

 

Raccolta di prose, poesie, pensieri, riflessioni

Alba …………………………………………………………………………………

In silenzio …………………………………………………………………………

Primo amore …………………………………………………………………….

Dolcissima Stellina …………………………………………………………….

Bella Messina ……………………………………………………………………

Tu bambina ……………………………………………………………………….

La fine della cicogna …………………………………………………………..

Ossessione per una ninfetta ………………………………………………..

Assenza ……………………………………………………………………………

Nostalgia ………………………………………………………………………….

Ricordo d’una ragazza scomparsa …………………………………………

Speranza ………………………………………………………………………….

Viaggio nell’animo mio ………………………………………………………..

Volo …………………………………………………………………………………

Ricordi ……………………………………………………………………………..

Il treno della vita ………………………………………………………………

La frase più bella ……………………………………………………………….

Attraversando il sole ………………………………………………………….

Preghiera d’un’anima in pena alla luna ………………………………….

Sogno ………………………………………………………………………………

A te Marietta (1855-1872) …………………………………………………..

L’immagine ……………………………………………………………………….

Descrizione d’un ritratto funebre …………………………………………

Dialogo tra Manuel (il vero me stesso) e Marietta ………………….

Apparizione d’una figura sognante ……………………………………….

All’interno della chiesa ……………………………………………………….

Il mistero …………………………………………………………………………

Morte solitaria in un cimitero deserto ………………………………….

Nulla eterno ……………………………………………………………………..

Solo nel buio ……………………………………………………………………..

Come in un incubo ……………………………………………………………..

Riflessioni …………………………………………………………………………

Io e la morte ……………………………………………………………………..

Questa vita breve ………………………………………………………………

I burattini umani ……………………………………………………………….

Solitudine e libertà …………………………………………………………….

La poesia del gabbiano ……………………………………………………….

Primavera ………………………………………………………………………..

L’armonia del creato ………………………………………………………….

Lungo le strade del mondo ………………………………………………….

Dolce silenzio ……………………………………………………………………

Fantasmi nella notte ………………………………………………………….

La leggenda di Camilla ……………………………………………………….

Il volto inquietante del mio male ………………………………………….

Storia d’un vecchio eremita …………………………………………………

Perdendomi nel tramonto …………………………………………………..

 

Bibliografia dell’autore ………………………………………………………
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Via Santa Cecilia, 248

98123 Messina

Tel. 090.675135

e-mail:dimgraf@tiscali.it

 

settembre 2004

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passo tratto dal libro “IL VECCHIO E LA RAGAZZA

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… il vecchio e la ragazza

Entrarono in fretta nell’abitazione senza neanche chiudere la porta. Fia era troppo decisa, sapeva di non poter perdere molto tempo, aveva calcolato tutto, era quello il momento giusto, ora o mai più e così rompendo gli indugi disse: “Voglio fare l’amore con te, Mosè!, voglio perdere la mia verginità!”. E lo disse con un tono così deciso e sicuro da sorprendere anche se stessa. Mosè sbiancò, si sentì di colpo in paradiso, poi all’inferno, cominciò a sudare, a tremare, a respirare convulsamente, per un attimo pensò di morire e trovò la forza per dire soltanto: “Anch’io sono vergine”.

Sapere che quell’uomo non avesse mai fatto l’amore con nessuno in 65 anni e che lei sarebbe stata la prima, in altre circostanze l’avrebbe sicuramente scioccata ma, in quel momento, lei non ci fece neanche caso, impegnata come era a portare a termine la sua missione.

Fece tutto lei, la ragazza ora sembrava la più grande professionista del sesso pur essendo anche per lei la prima volta. Ma l’istinto è superiore a ogni tecnica e sa guidare nella giusta direzione. Ora la ragazzina pareva molto più grande e matura del vecchio. Afferrò la mano di lui con la sua dicendogli semplicemente: “Vieni”, e lo condusse dritto verso il letto. Lui si lasciò guidare come un automa restando con la bocca aperta più impaurito che eccitato. La ragazza aprì in fretta la porta della, chiamiamola bonariamente, stanza da letto. Vi era un odore nauseante di rinchiuso e di muffa. Il letto, pieno di polvere e formiche, era più sporco che mai, perfino il cuscino si presentava male, non vi erano lenzuola né coperte, forse le aveva tolte Mosè per il troppo caldo. Ma a Fia tutto questo non importava. Poteva essere un letto fatto di urina e melma; poteva essere ricoperto di fiori e d’argento, sarebbe stata per lei la stessa cosa. Era altro che lei cercava, che lei voleva. Fia chiuse la porta, si sdraiò su quel letto, prima si alzò la maglietta sino al collo lasciando scoperta la parte che dal reggiseno arriva sino all’ombelico. Poi si alzò la minigonna lasciando libera quella che dalle mutandine arriva sino ai piedi. Si tolse in fretta le scarpe e quindi anche le calze e rimanendo in quel modo a faccia all’aria, si rivolse a Mosè che guardava incredulo e ammutolito, dicendogli: “Fai di me quello che vuoi, prendimi, scopami, amami”. Una scena così non la si può limitare descrivendola in un libro. Soltanto guardandola dal vivo, le si può rendere giustizia. Anche il più grande scrittore di tutti i tempi non sarebbe in grado di sostituire la visione con le parole e forse neanche capace di entrare in profondità nel corpo e nella mente di quel vecchio e di quella ragazza. La giovanissima ragazzina distesa, abbandonata sul letto con gli occhi un po’ chiusi e un po’ aperti, era bellissima, col suo corpo in penombra, in bilico tra innocenza e peccato, tra inferno e paradiso. Neanche il più inflessibile giudice d’un tribunale, o il più convinto assertore contro la pedofilia, neanche un santo, neanche un angelo, avrebbe potuto resisterle e non desiderarla. Mosè rimase sbalordito a guardarla. Avrebbe voluto farle mille complimenti, dirle mille volte grazie, renderla partecipe di quello che lui provava dentro. Ma nessuna voce poteva spiegare quelle sensazioni. Così non parlò. Timido, imbarazzato, totalmente incapace di effettuare la benché minima mossa, rimase così in estasi a contemplarla come un innocente bambino che vede apparire la Madonna per la prima volta. Ma lei non era una visione né un sogno, era vera, in carne e ossa, pronta per essere toccata, baciata, venerata, amata. La ragazza, sconvolta nei sensi e nell’anima di trovarsi lì ad offrire le sue innocenti nudità allo sguardo d’un vecchio, aspettava impaziente da lui un gesto, un segno ma il vecchio rimase impietrito come una statua senz’anima, dopo un breve tempo che alla ragazza era sembrato un’eternità, riuscì a dirle soltanto sottovoce: “Che devo fare?” A quel punto la ragazzina diventò sua madre. Prese dolcemente la mano destra di quel vecchio e la portò sul suo giovane corpo, guidandola con la sua, accompagnandola dappertutto come un’isola vergine da esplorare, dalle dita dei piedi sino alla punta del capello più alto. Non sono in grado, cari lettori, pur sforzandomi, di trovare le parole adatte per spiegare quello che provavano entrambi in quel momento. Certe emozioni, vanno vissute in prima persona, solo allora ci si può rendere conto. Nessun tribunale, nessuna censura, nessuna morale potevano annullare quelle emozioni così intense e se anche l’avessero fatto, avrebbero commesso un delitto. Il criminale non era il vecchio e neanche la ragazza, ma chi impedirebbe loro di farlo. Fia, poi con le sue mani, spinse dolcemente la testa del vecchio sopra di lei, facendo scorrere la lingua di lui per tutto il corpo. Fu a quel punto che sentì il bisogno di togliersi ogni indumento di dosso, restando completamente nuda alle carezze e ai baci del vecchio. Poteva arrivare di colpo Dio o Satana, un giudice o la polizia, il presidente della Repubblica o il papa in persona, loro due non si sarebbero mossi da quella posizione e avrebbero continuato imperterriti ad amarsi, non avrebbero potuto farlo pur volendolo. La ragazza, più audace che mai, spogliò il vecchio che rimase nudo davanti a lei. Era impressionante la differenza fra quei due corpi, ma gli opposti spesso si attraggono. Se fossero stati entrambi bellissimi, forse sarebbe stato meno eccitante. Il fascino del proibito, del peccato rendevano quel momento ricco di emotività e sensualità.

Era la danza della trasgressione, il trionfo della libertà assoluta. Ora i due giacevano in ombra, su quel letto, nudi. Lei sdraiata, lui inginocchiato davanti a lei. Fia ora osservava quel corpo di vecchio così diverso dal suo e le fece un po’ pena, capì dentro di sé la fortuna di essere giovani, la bellezza della giovinezza. Poi i suoi occhi si posarono su quel membro penzolante, le fece tenerezza, non le fece paura. Era la prima volta che ne vedeva uno in vita sua. Istintivamente allungò la mano e la posò su di esso. Ma fu un gesto sollecitato dalla curiosità e non dal desiderio. La ragazza si trovò in mano quella nuova e sconosciuta creatura e le sembrava di toccare un piccolo serpentello, morbido e caldo, simile ad un bastone di velluto. Il contatto con quelle mani calde e lisce, procurò un effetto devastante sulla psiche dell’anziano che raggiunse di colpo un’erezione notevole da fare invidia a un dio greco bello, muscoloso e potente. La ragazza, avvertendo sul palmo della mano quell’incredibile cambiamento, si spaventò e lasciò quella presa.

Il vecchio capì che era il momento giusto, aveva vinto le sue paure, il suo imbarazzo. Cercò in fretta il suo pantalone e tirò fuori dalla tasca il preservativo ma con le mani tremanti non riuscì a metterselo e forse anche per non averlo mai usato prima in tutta la sua vita. Ancora una volta fece tutto lei, la piccola Fia guidata dall’istinto che è il migliore maestro, più di qualsiasi insegnante o scienziato. L’uomo si distese sul corpo della ragazza ma non fu capace di compiere l’atto, sia per l’inesperienza, sia per l’emozione che stava riprendendo il sopravvento. Per l’ennesima volta, intervenne ad aiutarlo la ragazzina col suo istinto unito alla sua voglia. Aprì le sue gambe, riprese quel membro in mano e lo indirizzò lei stessa dove doveva andare, spingendo in avanti il bacino per favorirne l’operazione. La ragazza sentì solo un lieve dolore e non ebbe perdita di sangue. Non fu doloroso neanche per lui. La natura li aiutò entrambi per non guastare quel sogno. Il vecchio istintivamente cominciò a muoversi sopra di lei con dolcezza facendola gemere e sospirare ma anche lui non poteva fare a meno di emettere piacevoli lamenti. Con la mano destra appoggiata sul suo seno sinistro e con la sinistra sulle cosce e sulle natiche della ragazza, il vecchio aumentò il suo ritmo in un folle vertiginoso crescendo che coinvolse entrambi. Le sensazioni che quel membro le procurava dentro, erano molto più forti ed intense di quelle che si regalava da sola con le sue dita e ora lei si sentiva presa, amata, desiderata, si sentiva totalmente sua. Il vecchio, a sua volta, si trovava ormai in orbita, in un altro pianeta, fuori da ogni spiegazione umana e logica. Aveva aspettato 65 anni per farlo ma non aveva nessun rimpianto di aver atteso tanto. Anzi, se dovesse morire e rinascere un’altra volta in questa terra, aspetterebbe altri 65 anni pur di incontrare poi nuovamente la sua bellissima principessa Fia. Se in quel momento, fosse entrato lì dentro il papa e li avesse visti in quell’atto, avrebbe sorriso e li avrebbe benedetti.

Cari lettori, anche se quello che vi sto per dire vi sembrerà partorito da una mente folle, non posso non scrivervi che la scena di quel vecchio e di quella ragazzina che si amavano consapevolmente stringendosi l’un l’altra, era la più bella poesia che potesse esistere al mondo per mille motivi che non sto qui a enunciare per non sconvolgervi ulteriormente. I due raggiunsero l’orgasmo quasi simultaneamente e fu più bello ancora. Poi rimasero abbracciati e la ragazza decise in quel momento di ringraziare il vecchio facendo quello che non aveva avuto ancora il coraggio di fare. Avvicinò le sue labbra a quelle del vecchio e lo baciò appassionatamente come se si trattasse di un ragazzo della sua età. All’inizio avrebbe voluto soltanto sfiorarle ma poi la passione, unita al desiderio di baciare per la prima volta, la spinsero a unire la sua lingua a quella del vecchio, in una mescolanza di sapori e di saliva che stordì entrambi. La scena di una ragazzina di 15 anni che baciava appassionatamente un vecchio di 65 era pura armonia, il trionfo della vita, l’immortalità dell’anima che aveva il sopravvento sull’età del corpo. Quell’intenso bacio fu persino più bello del rapporto sessuale. Fino all’ultimo istante Fia dimostrò a Mosè la sua grandezza interiore, la sua comprensione, la sua dolcezza. Il vecchio e la ragazza avrebbero voluto restare ancora abbracciati ma tutto, nella vita, prima o poi ha una fine.

La ragazza guardò l’orologio: “È tardi, devo andare”, esclamò preoccupata.

I due si rivestirono in fretta senza dire una parola, non ve ne era bisogno, si erano già detti tutto. Il vecchio salì sul motorino, lei montò dietro e partirono verso quella villetta di Leonforte che li aveva fatti conoscere.

Quel vento che all’andata, alzando la gonna della ragazza, sembrava complice del demonio, ora compiendo lo stesso identico gesto, pareva agli occhi di lui un poeta che scriveva i suoi versi ispirati da un angelo. Per tutto il tragitto non parlarono, a volte il silenzio vale più di mille parole. Entrambi erano consapevoli che quello che era accaduto quel pomeriggio tra di loro, non sarebbe successo mai più, quella era stata la prima e l’unica volta.

Le cose belle, nella vita, non possono ritornare. Avrebbero potuto farlo anche altre cento volte, ma non sarebbe mai stato bello quanto la prima.

Il vecchio e la ragazza desideravano entrambi che finisse tutto lì per conservare insieme, nelle loro menti e nei loro cuori, la poesia del ricordo di quella prima ed ultima volta. Arrivati in quella villetta, osservarono insieme quella panchina dove si erano seduti per la prima volta conoscendosi. Le avrebbero fatto un monumento se solo avessero potuto farlo. Si salutarono con un semplice “ciao” e senza darsi un nuovo appuntamento. Il destino che li aveva fatti unire, ora aveva deciso di dividerli per sempre. Si separarono così ma entrambi avevano una strana luce negli occhi che li rendeva simili nonostante avessero un’età così differente. Quella luce la potevano notare tutti ma nessuno sarebbe stato in grado di capirne l’origine. Quello era un segreto che apparteneva esclusivamente a loro due e a nessun altro e restò tale per tutta la vita. Nessuno seppe mai nulla. Fia tornò a scuola più matura e serena. Era una bella ragazza, avrebbe avuto tanti corteggiatori, magari si sarebbe innamorata di un bel ragazzo, si sarebbe sposata e avrebbe avuto tanti bei bambini che a lei piacevano tanto. Ma non aveva più fretta, aveva una vita davanti per essere felice. E lui Mosè riprese la solita vita di sempre, col suo immancabile motorino, col saluto di tutta la gente di Enna, con la sua chiesa di San Raffaele, il suo parroco padre Santino e tutti i parrocchiani che continuavano a riempirlo di regali e di elemosine.

A me, cari lettori, non resta altro che concludere questo mio libro sperando che non vi abbia deluso e che possa essere servito a qualcosa e a qualcuno.

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CLAUDIO CISCO “le mie poesie con immagini”

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Mia strega
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Balla mia strega

balla per me muovendo più forte i fianchi

balla con il corpo e con l’anima.

Balla sotto questa luna piena

colora d’argento i miei sogni

nei tuoi occhi vedo riflessi cosmici diamanti.

Non ho bisogno di bere il tuo filtro

mi hai stregato solo con lo sguardo

mi hai in tuo potere ormai.

Riempimi i sensi e l’anima di te

abbandonati tra le mie braccia

e regalami la tua follia per sempre.

 

NOSTALGIA

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Le inquietudini del mio primo bacio

e poi le affascinanti scoperte intime

i primi turbamenti

quei peccati d’una età che non torna più

scomparsa per sempre.

E tu sorellina timida timida

ed io fratellino impacciato e buffo,

tra sguardi e silenzi

ci spiavamo dentro l’anima

imparavamo ad amare.

Provo con la fantasia a tornare bambino

insieme con te

nella poesia di quel nostro magico mondo.

Cerco invano

di ricreare quegl’innocenti momenti intensi

mi ritrovo il fantasma d’un uomo già inesorabilmente invecchiato.

Quelle due giovani creature

ora son come cristalli di ghiaccio d’un viso d’inverno.

Quell’antica primavera

è ormai neve e gelo.

 

 

PERDENDOMI NEL TRAMONTO

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Un altro giorno sta passando uguale agli altri

ed io sono da solo con i miei pensieri come sempre,

dentro l’anima sospesa tra i ricordi e l’infinito

una irrefrenabile voglia di fuggire via,

di respirare forte l’aria.

Con la mia auto corro sull’asfalto verso chissà dove

come per riscattare l’anima dal suo torpore

ma la strada sembra farsi sempre più triste.

Il sole scende lentamente all’orizzonte,

la sua luce filtrando attraverso le mie lacrime

mi mostra il suo colore su ogni cosa intorno

avvolgendo il paesaggio d’una malinconica bellezza.

Vedo la spiaggia deserta,

odo il rumore del mare che s’infrange contro gli scogli,

sento il calore della sabbia sotto i piedi nudi e mi sento vivo

seguo la via illuminata che il tramonto sembra indicarmi.

E in quella luce come una visione

mi appare il tuo viso

così vicino da sembrare reale,

per quante notti l’ho sognato.

Purtroppo i sogni vanno via col vento e si dissolvono

ma io, chissà perchè, non l’ho mai dimenticato.

Ora vedo scomparire laggiù in fondo al mare

il sole,

nasconde i suoi ultimi raggi quasi furtivamente,

e la superficie dell’acqua,

che nelle giornate serene luccicava

come ricoperta da miriadi di specchi,

assume quel triste colore che segue al crepuscolo

delineando il profilo d’una natura morente.

Anche il tramonto ormai,

come tutte le mie cose più belle,

è fuggito via.

Ed io mi trovo ancora qui in riva al mare

senza sapere il perchè.

Portami via dove sei tu

non lasciarmi solo.

Distante dal mondo

senza ombra viva intorno e col tempo che vola,

la mia anima s’è perduta

volgendo anch’essa al tramonto.

 

 

“PRIMAVERA”PRIMAVERA
Petali di fiori,

ali di farfalle,

canti di uccelli,

profumi nell’aere.

Il sole che sorride,

il cielo che sta a guardare.

PROSTITUTA SCONOSCIUTA

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Ti vedo tutte le sere al solito posto

sopra gli sterili binari d’un tram.

Se hai freddo strofini le mani per scaldarti,

se non passano macchine continui a guardarti intorno.

Gli stivali neri di cuoio sempre gli stessi,

la borsetta a volte rossa altre nere,

il solito trucco vistoso:

questa sera però mi sembri più bella!

sexy più che mai.

Chissà se sei sola nella vita

o se qualcuno ti ama!

Chissa perchè lo fai!

Forse avrai un romanzo dentro da raccontare,

testimonianza di un’esistenza non bella

come avrebbe dovuto essere.

Vorrei poterti aiutare,

amarti,

stare un pò con te!

Oggi per la prima volta

ti vedo con occhi diversi,

non mi interessa affatto il sesso.

Non ho mai avuto il coraggio di avvicinarmi a te,

mi blocco ogni volta che provo,

mi sembri quasi irraggiungibile

ma poi per dirti cosa?

In fondo ho paura di fare tutto.

Ti scongiuro, fuggi con me prostituta sconosciuta!

Ricominciamo insieme una nuova vita,

non consumarti più cosi!

ti stai buttando via da sola!

Non riesco nemmeno a terminare questi pensieri

che la vedo salire già su una macchina sportiva.

Addio mia sconosciuta prostituta!

sicuramente domani verrò ancora a vederti

e a tenerti compagnia in segreto e a distanza

forse mi sono innamorato di te

o forse abbiamo qualcosa in comune che ci unisce:

siamo entrambi soli,

che il Signore ci aiuti!

 

RICORDO D’UNA RAGAZZA SCOMPARSA

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Le serate passate sulla nostra scogliera,

il bacio lì, in riva al mare

col tramonto che ascoltava le nostre anime

mentre il mare suonava la nostra canzone.

Tanti ricordi, tanti momenti felici,

tanto amore.

È questo che vorrei gridare in silenzio

ma a che serve ora che non ci sei più?

La tua vita è stata troppo breve

come il nostro amore.

Forse il tuo compito

era farmi provare un sentimento nuovo per me: l’amore

per poi scomparire come un angelo.

Sei salita al cielo

ed ogni notte, piangendo,

cerco di vederti tra le stelle.

Addio per sempre!

 

 

SENSAZIONI

SENSAZIONI

E’ tutta avvolta

nel mistero e nella meraviglia

questa vita mia,

con genuino e infantile stupore

della natura

osservo ogni manifestazione

fino ad esserne rapito.

Con sensibilissima attenzione,

nel silenzio,

ascolto

le voci,

i suoni

anche i più tenui,

delle piccole cose

intorno a me.

Affascinato e curioso,

percepisco

la suggestione,

la religiosità,

il mistero

nascosti in esse.

Ai miei occhi

non appaiono

sempre traducibili e afferrabili

ma sciogliendosi in musica,

in sospiro,

mi riempiono

ugualmente

l’animo d’immenso.

 

 

Verrà poi la morte
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La mia vita passerà molto presto

drammatica e patetica

e con essa anche la sua ricchezza

fatta umana dalla fatica.

Il tempo,

un male che impoverisce la vita,

mi toglie ogni energia vitale,

il mio corpo senza speranza e senza salvezza

si rivolta, si risparmia, geme

s’illude ancora di strappare giorni, ore, minuti alla fine.

Ma vi è un altro male

subdolo e ancor più disperato:

quello di essere completamente solo

nell’umana comprensione di sé

costretto a tacere e fingere,

a rivedere il passato riflesso

nelle lacrime degli occhi che piangono

in un profondo bisogno di confidenze.

Triste appare allora il volto della memoria

come immobile silenzio che tende all’astrazione.

Verrà poi la morte del corpo

il distacco amaro.

 

V O L O

foto 1 per la poesia VOLOfoto 2 per la poesia VOLO

 

 

 

 

Ho aperto i miei occhi

liberato la mia mente sfidando tutti i miei limiti,

ho lasciato alle spalle

gabbie, catene, labirinti, muri insormontabili

e quell’uomo morto ch’ero ieri

e che oggi non riconosco più

fino a ridere della mia disperazione del passato,

persino la morte sembra inchinarsi

alla mia nuova voglia di vivere.

Dentro di me

l’oscurità s’è trasformata in un riverbero di luce.

Nell’anima esplode

l’incredibile forza dell’amore verso la vita.

Vedo nuovi orizzonti

distendersi davanti ai miei occhi.

Intorno a me

spazi infiniti m’invitano a raggiungerli.

Tutto è ancora da scoprire

e mi sta aspettando

e con l’entusiasmo di un bambino

m’accorgo per la prima volta

quanto sia meraviglioso vivere.

Non ho più paura ormai.

Solo,

con il vento in faccia,

apro le mie ali e mai più mi fermerò.

Finalmente adesso volo…

 

 

CLAUDIO CISCO “versi ed immagini”

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IN SILENZIO

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Io e te,

mano nella mano,

camminiamo verso il sole

guardandoci in silenzio.

Le nostre orme

sono raggi di luce,

nel loro chiarore, riflesso

osservo il tuo viso

dolcissimo

che m’incanta,

in silenzio.

Siamo solo noi due,

creati l’uno per l’altra,

rapiti da questo sole immenso.

Un amore senza fine,

grande più di noi,

ci trascina via lontano

e tu esisti ormai dentro di me

ti sento in ogni parte del corpo,

tu sei l’aria che sto respirando,

sei la mia stella che brilla nel cielo.

Vicinissimi,

avvolti dal calore,

noi ci amiamo

sfiorandoci in silenzio.

Siamo in viaggio da qui all’eternità,

eroi di un sogno in questo breve vivere,

non svegliamoci mai!

ed ora in quest’istante magico,

tu ed io siamo un solo essere

non so più dove finisci tu e comincio io,

dove si dilegua il sogno e appare la realtà.

Ora tutto acquista un senso

e finalmente scopriamo insieme

che c’è qualcosa di noi,

un motivo per vivere.

Non siamo più soli,

finchè mi starai vicina

saprai tutto di me,

avrai il meglio di me stesso

e tu con me sarai sincera.

Stringimi la mano più forte,

sei l’unico scudo tra me e il mondo,

ho bisogno di te per non morire.

 

 

IO L’HO VISTA

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Io l’ho vista

quand’ero ancora adolescente

e mi sentivo solo,

in quel freddo pomeriggio d’inverno

nel silenzio

in quella grotta buia coperta da fronde.

L’ho vista

nella sua nudità d’angelo

librarsi in volo con le sue ali dorate,

mi ha parlato

con la sua voce dolce e suadente.

L’ho vista, lo giuro!

anche se nessuno mi vuol credere,

mi ha detto di non svelare il suo segreto

che da allora è anche il mio.

Nella notte delle stelle cadenti

sono tornato nel punto dove mi è apparsa

ma non ho veduto più nulla

silenzio assoluto anche del vento,

ma una luce brillante si è accesa

subito dopo che sono andato via.

 

 

 

L’ALBA DELL’UOMO

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Da un chiarore lontano

spunta l’alba

repentinamente

e colora di luce il nuovo mondo.

Intorno,

piante stecchite

animali selvatici

grotte e caverne buie.

Si svegliano anche gruppi di scimmie

sono nude come vermi della terra,

schiamazzano

litigano

si riuniscono.

Qualcosa sembra dire loro:

“uniamoci

e combattiamo insieme”.

Una battaglia che durerà nei secoli

sino alla fine dell’universo

se fine ci sarà.

 

 

“L’INFINITO”
(Dalla lirica omonima di G. Leopardi)
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Ti ho sempre amato

colle!

solitario come me.

Ti ho sempre amata

siepe!

che mi fai aprire l’anima verso l’orizzonte

me lo nascondi ma me lo fai amare

immaginando spazi infiniti.

Ho sempre amato questo posto,

il suo sovrumano silenzio,

la sua profondissima quiete,

e il tenue soffio del vento tra gli alberi,

e la dolcezza di queste piante che dormono.

E mentre sono seduto

e guardo lontano,

mi tornano in mente le stagioni fuggite,

l’ora presente,

l’eternità,

Ed è dolcissimo

perdersi nell’immensità della natura.

 

LA BELLEZZA DEL SILENZIO

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Chiuso in un silenzio

senza fine

la solitudine mi fa compagnia.

È bello il silenzio

è di una bellezza

che fa paura.

 

LA BESTIA RARA

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Sguardi sconosciuti,

persone che mi scrutano,

che ridono guardando

verso di me o nel vuoto.

Non so…

in qualunque caso

sono persone come altre

che seguono la massa.

Alcune mi fissano

come se fossi una bestia rara,

a volte mi fanno paura

sembra che mi disprezzino,

che vogliano farmi del male.

Forse solo perchè mi distinguo dal gregge

e sono per inclinazione

fuori dal coro.

Ma io non sono nato per far fare numero

o per consumare ossigeno prezioso,

ho un’anima con me anch’io,

preziosa e brillante più di un tesoro,

io e Dio soltanto

sappiamo bene il valore che ha.

 

LA FINE DELLA CICOGNA

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Un serpente velenoso

s’insinua vischioso nel mio giardino d’infanzia,

due mani sporche di fango,

maliziosamente,

rubano al mio impubere corpo

l’innocenza.

Sui miei occhi appena aperti

calano inesorabili ombre

senza più luce.

I sorrisi ingenui delle fate

divengono

tentacoli della paura.

Muore sbocciando

quel fiore reciso

che non crescerà più.

Mi hanno ucciso la cicogna

e con lei anche Gesù Bambino.

 

 

LA LUCE DEL COSMO

foto da inserire accanto alla poesia LA LUCE DEL COSMO

Come per magia

il divino traluce

o affiora ai margini del mistero sovrasensibile

e la mia anima s’insinua

tra sensazioni terrene e misteri dell’essere,

nelle cose che l’occhio può scoprire mutate

in una luce e un suono

insospettato, nuovo, più profondo.

Sento nascere in me

il bisogno di illuminare con la luce del cosmo

le cose infinitamente piccole.

La mia anima così si fa largo

e nello spazio che mi creo

c’è il senso del tempo, del moto, del divenire

e insieme del mistero

che avvolge il mondo delle sensazioni.

Entro in contatto

con tutto ciò che ignoro, intravedo, avverto

e soltanto in quell’istante,

sia pure con animo turbato,

riesco a capirmi.

 

 

“LA POESIA DEL GABBIANO”
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E’ arrivata esultante

la stagione del gabbiano,

è tempo d’emigrare

verso terre lontane

per scoprire nuovi segreti,

nuove sensazioni.

Un nuovo giorno

è oggi,

per spiccare il volo

sulla superficie del mare aperto,

sull’orlo dell’oceano,

per volteggiare sulla cresta dell’onda.

Vola nel vento gabbiano!

vola più in alto che puoi,

non ti fermare.

La mia penna

saranno le tue ali,

i miei versi

la tua scia.

 

 

 

LA SPOSA DEL MARE

nettuno

Il suo corpo appartiene solo al mare

fedele sposa e amante del potente Nettuno.

Avanza elegante tra schiere di delfini

nel suo abito bianco,

spuma di cristallo

come velo d’argento

dal riflesso lunare.

Avanza la sposa sopra le onde,

cadono fiori dal cielo stellato, cielo che si confonde col mare,

brezze di vento

alitano accanto,

leggero un profumo di conchiglie si diffonde sulle coste.

E’ un rito la sua danza

sulle acque in controluce,

lontano si ode un canto.

 

CLAUDIO CISCO “poesie con immagini”

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CREATURE SAFFICHE
Svelatemi o Numi del cielo

o amabile Venere

o chiunque abbia creato L’Eros,

svelatemi vi scongiuro

l’arcano mistero di costoro:

son giovanissime dee puttane

o dolci figlie di Saffo?

Ninfette in amore,

amabili crature saffiche

con i loro corpi nudi

attorcigliati e avvinghiati uno sull’altro

fino a formarne uno solo.

Anima nell’anima

respiro nel respiro

fiamme di paradiso.

Acerbi potentissimi sensi

scambiatevi lancinanti effusioni,

esplodete di malizia e innocenza.

Brividi, sussulti e fremiti

son lugubri rintocchi di messa funebre,

orgasmi, orgasmi e orgasmi

rosari sussurrati nel silenzio della chiesa.

Grazie potente Zeus

grazie divinità tutte dell’Olimpo

per avermi donato occhi

che possono ammirare

così celestiale visione.

Perdonami Dio della bontà e della purezza

ma io non so rinunciare

alla tentazione di quei corpi.

grazie divinità tutte dell’Olimpo

per avermi donato occhi

che possono ammirare

così celestiale visione.

Perdonami Dio della bontà e della purezza

ma io non so rinunciare

alla tentazione di quei corpi.

saffoSapphoErinna

 

 

DEPRESSIONE

depressione

La salute c’è

non presenta nessuna malattia.

Eppure è così deperita,

quando dorme sembra morta!

Cos’ha questa povera ragazza?

Non ha niente!

Ha solo il verme

della depressione

che la sta consumando

pian piano

ogni giorno di più.

 

 

DOLCISSIMA STELLINAdolcissima_stellina
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dolcissima Stellina,

timida come un pallido sole dietro le nuvole,

tenera come un piccolo usignolo addormentato sul nido,

dal sorriso luminoso e fresco come stilla di rugiada

tu sei per me il sogno d’una notte incantata,

l’effimera illusione d’un amore irrealizzabile.

Sei in questo mio vivere terribilmente oscuro

come una luce fioca

che da lontano cresce… cresce… fino ad abbagliarmi l’anima

col tuo modo di muoverti sublime come ali di cigno

e la tua voce melodiosa come cori di augelli.

Lacrime lucenti di gioia

brillano adesso nei miei occhi.

In un attimo tu hai riempito di bello il mio cuore,

dipinto di sogno la realtà

ed io non vorrei mai più svegliarmi da questo momento magico.

Sembra quasi d’averti già conosciuta tanto tempo fa

in qualche sogno lontano chissà dove

e se guardo attentamente nel fondo dei tuoi occhi,

scopro in essi l’infinito vibrare

e tu ed io uniti che voliamo via sempre più su senza limiti,

dileguandoci come due gabbiani liberi verso l’orizzonte.

Restano ammutolite nel mio silenzio magico

mille parole, mille sensazioni

che sento ma non riesco ad esprimerti,

non so come spiegartelo

ma avverto dentro, qualcosa d’indefinibile, mai provata prima,

meravigliosamente reale al tempo stesso:

un bene prezioso e profondo sommerso in me stesso

come il rosso corallo negli abissi del mare.

Da una vita sono in cerca di te

ma tu sei più di quanto aspettassi.

Dolcissima Stellina

Abbi cura di te, ti auguro di non cambiare,

resta quel germoglio che sei adesso.

Non gettare al vento il fiore della tua giovinezza,

non smarrire col tempo la purezza dei tuoi sguardi,

l’armonia d’ogni tuo gesto

perché solo tu riesci a sorridermi con gli occhi,

hai in te qualcosa in più che appartiene solo agli angeli:

che ne sarà mai del tuo viso innocente e pulito

quando, domani, cadranno le lacrime degli anni?

e quel giorno, ora tanto lontano, ti ricorderai di me?

Addio mia dolcissima Stellina!

avrei voluto darti molto di più

tornando adolescente insieme con te nel tuo mondo

ma sono dai tuoi anni

ormai disperatamente lontano.

Ti lascio in questa poesia

il mio ricordo di ragazzo solo come te

ed ogni volta che la leggerai, d’incanto,

non esisteranno più barriere né distanze tra noi due,

io, di colpo, rinascerò in te

e tu, specchiata nella mia anima,

sarai qui vicino a me.

EROS E MORTE

erosmorte

Eros e morte

camminano insieme,

l’uno a fianco dell’altro,

dall’origine dell’universo

sino all’eternità.

Non può esistere il sesso

senza l’incombente presenza della morte,

e non si può morire per sempre

se non si sparge prima su questa terra il seme dell’amore.

Ogni essere umano comincia a morire

da quando un orgasmo lo genera,

e conserva nella memoria d’una lapide

parte di quell’amore che non separa la vita dalla morte.

Non c’è maga Circe capace di convincere Ulisse

col dono dell’immortalità,

e non esiste spada di Damocle sul punto di crollare

che spaventi l’uomo

perchè quest’ultimo,

ostinato e vanitoso,

innamorato di quel breve soffio che è la vita,

è pronto a sfidare persino gli dei

pur di amare e morire,

respirando fino all’ultimo alito di vita,

sfruttando anche l’ultima goccia di sangue che arrivi al cuore.

Dinanzi a tanta meravigliosa presunzione di vitalità

anche l’Onnipotente resterebbe senza parole.

 

 

ESSENZA LARVALE

essenza_larvale

Su strada nera conduco i miei passi,

nascosto oltre un nulla d’infinito,

una volta oscura sovrastante incombe.

Ascolto le cadenti lacrime della natura,

scendono sul mondo e me

cencioso essere mortale.

Enigma è la mia inesistente provvidenza,

nichilismo dei buoni sentimenti

icone perdute di essi.

Come dalla psiche profonda

omissioni di verità approdano

caricandomi di brama di comprensibilità.

Fuori da mura di pelle

le febbri son più grandi

dei geli del cuore.

Respiro zolfi del mondo

dove il calore diviene sempre più tenuo,

solo fredde spinte sussistono in me.

Nessun vigore ausilia la triste marcia,

tranne un’anomia fredda come il cuore

d’essenza larvale che sono.

E soltanto ora la mia anima maledetta

comprende il senso insensato

di un’esistenza di vela senza vento,

di airone senza ali,

di carne senz’anima.

 

 

 

IL MARE E LA BAMBINA

il_mare_e_la_bambina

L’inesorabile sbattere delle onde

graffia gli scogli

li scolpisce, li modella.

La bambina,

con la vestina gialla e il fiocco stretto in vita,

ha negli occhi l’immagine del sole

per l’ultima volta visto.

Guarda il mare,

vi proietta quell’immensa luce.

E’ solo un attimo

e l’acqua la travolge.

E dopo è solo luce

luce che rischiara e scalda il mare

e la bambina è solo acqua.

 

 

IL MIO IO COSMICO

natura (1)

Vedo vivere e sfiorire intorno a me

inesorabilmente

le persone, le cose, le stagioni

preda d’un sentimento panico dell’universo.

Trovo conforto abbandonandomi nella natura

per dimenticare in essa la mia forma umana

accogliendo nel sangue

il brivido solare d’una vita pura.

Il mio io cosmico pone la propria oggettività

per poi tornare a se stesso

nel perpetuo flusso della vita.

Mi fondo nella natura

contemplando il momento in cui l’amore

sarà libero fuori dal corpo

per farsi cielo.

Sublimo l’anima con i sensi

ma non interrompo il contatto fisico col mondo.

Forse spero di trovare in fondo alla strada percorsa

il silenzio e la solitudine dell’universo

anche quando silenzio e solitudine

sembrano chiudermi e annientarmi.

 

IL MISTERO

il_mistero

Rapito dal tuo vortice

sto scrutando il tuo cielo infinito,

volteggiando nel tuo vento impetuoso,

naufragando nel tuo mare in tempesta,

sprofondando nei tortuosi meandri della mia mente

ma sto solo impazzendo

perdendomi in un labirinto enorme.

Scopro l’ignoranza della scienza.

Smarrisco la mia fede.

Rimango spaventosamente affascinato.

Sulla riva un bimbo col suo secchiello

vuol prendere un pò alla volta tutto il mare.

 

 

IL SILENZIO NEL SILENZIO

il_silenzio_nel_silenzio

Erba appena bagnata sulla livida terra,

odore di pioggia da poco caduta

trasporta nell’aria bollicine di sogni,

in questo autunno che scorre lento…

Silenti alberi ammutoliti e spogliati

attendono stanchi giovani foglie,

con la nuova stagione arriveranno

in questo autunno che respira lento…

Un colore giallognolo suggestivo e irreale

avvolge ogni cosa di magico incanto,

sfumature di anime invocano il sole

in questo autunno che sbadiglia lento…

Piante e animali stanno dormendo

la natura è un fantasma che si aggira ramingo,

persino le pietre chiudono gli occhi arrossati

in questo autunno che dorme lento…

Non si avvertono rumori, non si odono lamenti

non c’è più linfa, è sottratta ogni energia,

domina il nulla immobile e statico

in questo autunno che tace lento…

Una coltre di nebbia come una nuvola

disegna il paesaggio di malinconica assenza,

una sottile tristezza scende sul cuore

in questo autunno che muore lento…

E in questo bosco solitario e sperduto

dove anche il vento non ha la forza di soffiare,

io perdo me stesso ed i miei pensieri

e nel silenzio io rimango in silenzio.

 

 

Il volto inquietante del mio male
 

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Vorrei svegliarmi da quest’incubo,

gettami acqua fresca in viso,

il ghiaccio mi assale,

scaldo le mani con un po’ di fiato.

Cerco in me una via d’uscita

ma non esiste fuga,

non c’è posto per nascondersi,

proteggermi non puoi.

Diverso da ogni altro,

nella terra di nessuno,

tutto intorno tace

in un silenzio irreale.

Guido senza meta,

faccio sesso senza amore,

riflesso in uno specchio

c’è un fantasma al posto mio.

E non trovo le parole

per spiegare ciò che ho,

ogni cosa intorno a me

appare sadica e crudele.

È inutile sforzarsi

di essere normale,

non posso fingere a me stesso

proprio non funziona mai.

Trascinato dentro un labirinto enorme

vedo stanze tutte uguali;

in ognuna di esse

mi attraggono piaceri sempre nuovi.

Sembrano dirmi:

“Entra da noi, esaudiremo qualunque desiderio

non importa che sia proibito

vedrai sarà bellissimo”.

Sbagliare è facile

se non sai più chi sei,

non ho saputo dire no,

mi sono perso in un vicolo cieco.

La strada ammaliante del piacere

mi viene incontro senza ostacoli,

preda inerme della concupiscenza

tocco il fondo pensando di raggiungere la cima.

Sono schiavo del mio istinto,

intrappolato nella mia angoscia,

c’è un’ombra che mi insegue,

dovunque vado non mi lascia mai.

In una danza infernale,

senza fermarsi mai,

girano intorno a me

fantasmi ed incubi.

Voglio scoprire la tua origine,

combattere ed annientare le tue tentazioni,

fino a giungere faccia a faccia

con il volto più inquietante del mio male.

Sì, scaverò nei miei profondi abissi

tirerò fuori il demone a cui appartengo,

a costo d’impazzire,

giuro io mi libererò.

La mia anima smarrita

ora sprofonda dove non c’è luce,

nuda nuota sott’acqua,

non riemerge più.

CLAUDIO CISCO “liriche con immagini”

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foto per la poesia ALLA DERIVA

ALLA DERIVA

E’ grigio il clima del perenne essere.

Tutto è caduto:

le speranze perdute, le preghiere vane

le parole inutili, l’amore illuso

le primavere sfiorite, gli ideali mortali.

Ma non v’è più dramma in me

in questo continuo appassire e morire

ma completo abbandono.

Accetto di andare alla deriva

lasciandomi cullare dalla marea del tempo

in cui tutto si dissolve

fino a compiacermi del mio dolore.

E’ dolce sentirsi vittima, indifeso, inascoltato.

Capire che persino la vanità della vita

diventa pura armonia.

adolescente_luna

 ADOLESCENTE LUNA

Erano brevi attimi di buio

interrotti da labbra di neve,

addolciti da profumi d’incenso

e deliziose manie.

Era l’estate appagante

nella sua rossa solitudine

assordante di rumori al sapore di grano.

Ti adoravo mia adolescente luna

disegnandoti sul mio diario segreto,

illuminavi i miei giorni confusi,

le notturne paure,

e le memorie ancora acerbe prendevano forza

in una danza eclettica di ondeggianti stelle.

Eri mia!

lunghi fianchi sinuosi distesi su letti d’argento,

e lì riappariva il mare nella sua immensa distesa.

Oggi che i miei giorni si consumano di vecchiaia,

sei ancora mia

attraverso rughe di arrugginite memorie.

 

MARIETTA

A TE MARIETTA 1855-1872)

che se sei stata la gioia, l’amore di qualcuno,

A te Marietta!

che non ti ho vista mai.

A te che t’immagino come un fiore

che sboccia, fiorisce e muore senza dolore:

chi potrà mai piangere o lodare

la tua cruda e gelida pietra

che forte ed imperterrita

sembra sfidare la collera del tempo?

A te Marietta!

che ti penso sempre

come una dolce ragazza vestita di bianco

che con il bruno dei tuoi capelli

formi un vistoso e sublime color di primavera,

a te che guardando la tua tomba

mi s’incenerisce il cuore.

A te Marietta!

che nessuno un volto ti sa dare

e che con insistenza la tua immagine m’immerge

nel lontano passato della tua vita.

Non so chi tu sia stata

né saprò mai il motivo della morte

che presto ti colpì

ma so con certezza

che questa è la tua pietra

e che in essa il tuo corpo giace.

A te Marietta!

scrivo queste righe

per aggrapparmi all’illusione di un lontano ricordo

che mai ci fu.

 

Dedicata a colei che brevemente fu

e che mai in vita conobbi.

 

ALBA

“ALBA”
Alba!

tu stai sorgendo,

silenziosa brezza

nell’aria,

leggiadre ali

intorno.

Alba!

tu sta spargendo

il tuo colore

sul mare

addormentato.

La tua pace

mi sta cambiando.

La mia anima,

svegliandosi,

si sta aprendo all’amore,

verso l’infinito.

Io sento

che sto per nascere,

sì lo sento

io sto nascendo.

 

 

aquila_dalle_grandi_ali

“AQUILA DALLE GRANDI ALI”
Salti per il mondo,

e in cima

in un attimo ti ritrovi,

da quell’altezza

sei tu la padrona,

niente potrà più fermarti.

Aquila dalle grandi ali

ti stagli di profilo,

i tuoi occhi

puntano la preda.

Cosa ricordi di te stessa?

forse il fiore che ti generò,

il respiro del fuoco,

l’aria aperta.

A chi somiglia?

della natura sei complice

bocca bellissima.

Non avrò timori,

il sentiero è dritto

e la ghiaia è bianca.

L’erba che raccoglierai

sul ciglio ti basterà,

e gli anni futuri

ti vedranno fiera

in cima alla montagna.

Ed io saprò dove cercarti:

nel tuo nido.

 

 

 bella_messina (1)
“BELLA MESSINA”
Come chiave d’oro che apre al paradiso,

Messina spalanca la porta alla Sicilia perla incantevole.

Bella Messina

che si lascia corteggiare da due mari,

contemplata dall’alto dalle sue montagne,

sempre spettinata dal vento,

bagnata dal mare ed asciugata dal sole,

Messina presa per mano dalla Madonna.

Bella Messina

quando dondola dolcemente le navi del suo porto,

quando incoraggia e protegge il sudato lavoro dei suoi pescatori,

quando saluta piangendo ma aspetta con ansia

il ritorno d’un suo figliolo che s’allontana senza lavoro,

quando nelle sue ville accompagna il lento andare d’un vecchio,

guarda commossa gl’innamorati delle sue panchine,

gioca trasformata in bambina con i suoi piccoli.

Bella Messina

quando si tinge di giallorosso dietro la sua squadra,

quando si pavoneggia per accogliere i forestieri,

quando tutta parata si trucca con i colori della Vara,

divertente e scapestrata come il suo dialetto.

Messina lunga donna dagli esili fianchi

con gli occhi blu come il suo mare

ed i capelli d’oro come il sole delle sue spiagge,

baciata sulla superficie del mare da mille gabbiani,

che col suo stretto maliziosamente s’avvicina senza lasciarsi toccare,

Messina che all’alba apre gli occhi sul mare

e di notte s’addormenta sotto un lenzuolo di mille luci.

Messina solare dalle ali libere verso l’orizzonte

con gli occhi luminosi mai annebbiati,

sposa d’un clima ch’è armonia in ogni stagione,

Messina che con frutti e fiori profuma di primavera.

Bella Messina

defunta ma risorta dopo il 1908,

Messina che vuole andare avanti, che non vuol morire più

vestita ormai di abiti sempre più moderni.

Bella la mia Messina

è la mia terra, la mia città

qui sto bene, sono felice,

ogni sua strada, ogni sua via

è casa mia, il mio giardino.

In lei sono nato

ed in lei voglio morire.safe_image

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ATTRAVERSANDO IL SOLE

Da un oblò,

chiuso nella mia stanza,

vedo il sole uscire dai monti.

La sua luce m’abbaglia.

Continuo ad osservarlo

con l’anima aperta alla speranza

ed i miei occhi rimbalzano sul suo splendore

e vanno su te

che sei così tanto lontana

al di là della mia immaginazione.

Ti vedo riflessa nel sole in controluce.

E tu puoi guardare me.

Tu ed io alle due estremità d’una scia luminosa

che ci avvicina passo dopo passo

unendoci sempre più.

Ci veniamo incontro

percorrendo raggi di luce.

Ora tutti sono morti,

sono più vecchi

ma noi due siamo ancora insieme nell’aria

come bambini

attraversando il sole.